Il Regno. Romanzo selfie sul Cristianesimo

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fcd26a95c4167f091b6b7a63eb6afaf0_w600_h_mw_mh_cs_cx_cySe la letteratura nell’epoca dei selfie ha un campione è lui, Emmanuel Carrère. Anche ne Il Regno. “Me stesso al centro del mondo, il mio ombelico come ombelico del mondo”. Carter ha raccontato la sua turbolenta storia familiare senza omettere nessun particolare sgradevole (La vita come un romanzo russo, 2007: e pare che con la madre, la storica Hélène Carrère d’Encausse, di origine georgiana e membro dell’Acadèmie Française, non si siano rivolti la parola per anni), i giochi erotici con la sua amante (il crudele e vessatorio Facciamo un gioco, 2002, che, se non ricordo male, gli causò più di un guaio nella vita reale), la cognata che moriva di cancro (il bellissimo Vite che non sono la mia, 2009). Persino in storie che non lo riguardavano (lo strepitoso Limonov, 2012), Carrère narciso e contento trovava il modo di intrufolarsi: ehi, ehi, ci sono anch’io nella foto.
Fa così anche nell’ultimo lavoro, Il Regno, che racconta gli albori del cristianesimo partendo da una sua crisi religiosa di gioventù e dalla sua attuale posizione, quella di un non credente razionalista che al massimo pratica il bricolage del sacro (suggestioni buddhiste, yoga, i’ching) come una sorta di idromassaggio dell’anima.
C’è la lunga esposizione della sua crisi, il sollievo delle certezze, il mix di religione e analisi, gli appunti che teneva sul Vangelo di Giovanni. È un avvio sincero e in genere assai poco compiaciuto, al massimo un po’ snervante: 108 pagine prima di arrivare al nocciolo. Anche se ogni tanto gli scappa di farsi lodare: la madrina e l’analista gli dicono: se solo tu non fossi così intelligente, e ti viene da dire ma va’ e di fare il gesto di scacciarlo con la mano, anche se poi scoppi a ridere.
Ci sono, ogni tanto, trucchetti da rockstar (Carrère passa in rassegna tutti i suoi libri passati, come i cantanti che infarciscono la loro discografia di album live per rinfrescare e far circolare il vecchio repertorio), ogni tanto divagazioni incongrue e un po’ cazzone (parlando dell’iconografia della Madonna, gli accade di mettersi a parlare, saltando di palo in frasca, dei video porno che guarda, per raccontare di una non depilata che si tocca con particolare naturalezza: dev’essere una freelance o una traduttrice e non il solito puttanone, ne deduce il nostro, e tu che leggi alzi le spalle come di fronte all’amico logorroico che l’ha detta grossa.
Perché poi, alla fine, si tratta di questo: Carrère a me sta simpatico, scrive in maniera superba, è come quegli amici che prendi in giro dicendogli ma non ti si secca mai la lingua, ma guarda che non ci sei solo tu, però continui ad ascoltarli. Perché poi, alla fine, c’è la storia del Regno di Dio sulla terra, come lo raccontarono Paolo e Luca, il tessitore e il medico. E allora questo narcisismo, questo partire da sé risulta, paradossalmente ma non troppo, quasi una forma di umiltà, senz’altro una forma di onestà intellettuale, perché il rapporto con la religione è cosa personale e intima, che tu ci creda o meno.
Rispetto al vecchio narratore onnisciente Carrère scarta di lato, si fa da parte, ti rende complice e ti fa entrare nel gioco: vedi, su questa cosa non c’è niente di certo, solo queste poche righe, proviamo a immaginare come potrebbe essere andata. Prendono così forma sotto i nostri occhi il caparbio e imperioso Paolo (Carrère lo paragona, ed è una similitudine suggestiva, a Lenin) che traghetta la parola di Cristo (spesso oscura, spesso contraddittoria) oltre i confini del giudaismo, oltre la ritualità dei tabù alimentari e della circoncisione. E il conciliante medico Luca, non ebreo affascinato dagli ebrei, indagatore di “quello che resta” del Messia cinquant’anni dopo.
C’è nel Regno, mi ripeto, una narrazione superba e mai gratuita, una documentazione puntigliosa vagliata con acume, una curiosità e una franchezza (Carrère non nasconde che uno che ritorna dalla morte, un revenant, è la cosa più assurda a cui l’umanità sia arrivata a credere) che non è mai arroganza o sprezzo. C’è nel Regno una grande capacità di mettere in scena le dinamiche di potere, i contrasti, le asperità, le usanze, le procedure: di avvicinare il passato al presente. E c’è infine (come c’era in Vite che non sono la mia) la consapevolezza finale che l’amore disinteressato, quello per il prossimo, per il mondo, per i più reietti e bisognosi, quello della meravigliosa epistola di san Paolo ai Corinzi, sia il nocciolo puro e rovente del cristianesimo. Quello che in qualche età della nostra vita, anche noi che non crediamo, ci ha conquistati.

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