La tavola di Dio. Il menù dell’Ultima Cena

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Tavola di dioDa Leonardo a Veronese, dal Pontormo a Tintoretto, fino a Salvador Dalì e a Andy Warhol, l’Ultima Cena è stato uno dei soggetti prediletti dall’arte occidentale. Ma che cosa mangiò veramente Gesù, e che cosa gli hanno fatto mangiare i pittori di tutti i tempi? E come si mangiava, che cosa si beveva, come si stava a tavola ai tempi di Gesù? Un libro colto e divertente, ricco di aneddoti e divagazioni, a metà strada fra l’iconologia e la storia materiale, la biblistica e il trivial pursuit (lo schema è a domanda e risposta), soddisfa tutte le nostre curiosità, anche quelle che non credevamo di avere. Si intitola La tavola di Dio, lo ha scritto la giornalista Lauretta Colonnelli, lo pubblica l’editore Clichy di Firenze. Ecco la mia scelta fra le tante perle..
Menù. L’Ultima Cena era un pasto rituale che celebrava il Pesach, la Pasqua ebraica, in ricordo della fuga degli ebrei dall’Egitto. Si mangiava quindi quel che gli ebrei mangiano anche oggi: erbe amare, pane azzimo, charoset, agnello arrostito, vino.
Erbe amare. La lattuga, usata come antipasto anche nei banchetti romani. Oppure i germogli di cicoria selvatica o il sedano. Rigorosamente crudi. Si intingeva un boccone non più grande di un’oliva, in ricordo degli egizi che avevano amareggiato la vita degli ebrei. «Colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradirà» (Matteo).
Charoset. Una salsa, meglio ancora un impasto di frutta, in ricordo del fango con cui gli schiavi ebrei in Egitto costruivano i mattoni. Nell’impasto entravano mela, melagrana, fico, dattero, mandorla, noce. Cosparse di cannella e cinnamomo, a simboleggiare la paglia che si mischiava al fango.
Charoset 2. Secondo alcune scuole di pensiero, il charoset ricordava non il fango ma il sangue versato dagli ebrei, ed era perciò innaffiato di vino rosso. Altri, al posto del charoset, usavano l’aceto o l’acqua salata.
Dita e posate. Le posate non esistevano. Si prendevano i bocconi dal piatto comune con le tre dita della mano destra, pollice, indice e medio. Facevano così anche i romani, che si proteggevano la punta delle dita con ditali d’argento se le pietanze erano troppo calde.
Galateo. L’Antico Testamento (Siracide) prescrive come si sta a tavola. «Non allungare la mano sui cibi che un altro desidera, non urtarti con il tuo vicino: se vi servite allo stesso piatto, dai tuoi desideri puoi immaginare quelli degli altri, quindi cerca di riflettere prima di ogni tuo gesto. Sii educato, mangia quel che ti presentano, se non vuoi essere disprezzato non fare rumore quando mastichi, per educazione sii il primo a smettere di mangiare e non fare l’ingordo per non suscitare disgusto. Se sei in compagnia di molti non essere il primo a servirti. Se ti hanno costretto a mangiare troppo alzati, corri a vomitare e ti sentirai meglio».
Bagno. Si andava a tavola dopo aver fatto il bagno, i romani dopo essere stati alle terme. E si lavavano i piedi dopo l’antipasto e prima del pasto vero e proprio. Era così per i romani, è così anche per l’Ultima Cena, come racconta il Vangelo di Giovanni. Si lavavano i piedi dopo l’antipasto perché l’antipasto si consumava nell’atrio: poi si cambiava stanza e ci si sdraiava nel triclinio (mangiavano sdraiati anche Gesù e gli apostoli, le tavole e le sedie di tante ultime cene arriveranno a partire dal medioevo) e quindi i piedi andavano lavati prima, per non imbrattare coperte e cuscini con fango e altro.
Giuda. L’infame aveva tutte le carte in regola per fare una brutta fine. In molti quadri era un rosso malpelo, in numerosi altri era vestito giallo (il colore dell’infamia, quello imposto agli ebrei fin dal medioevo) ed era un ladro (lo dice il solito Giovanni). Anselmo da Campione, nel duomo di Modena, lo raffigura mentre sottrae un grosso pesce mentre Gesù gli porge il boccone. E in un arazzo fiammingo custodito nei Musei Vaticani sgraffigna addirittura un intero maialino arrostito. Che non poteva stare sulla mensa dell’Ultima Cena perché non era kosher.
Vino. Il vino dell’Ultima Cena non era puro. Ed era rosso. Offrire vino puro, allora, era considerato un’offesa. Gli ebrei usavano due parti d’acqua e una di vino, i romani e i greci tre parti d’acqua e due di vino.
Il sapore del vino. In una cantina di Tel Kabri, città cananea del 1600 a. C. nel nord di Israele, nel 2013 gli archeologi hanno trovato quaranta anfore di vino. Analizzando i residui secchi, hanno scoperto che al vino venivano aggiunti miele, ginepro, mirto, cannella, olio di cedro e resine varie.
Altre correzioni. Più nefaste le correzioni apportate al vino malriuscito. Si aggiungeva calce, gesso, resina, marmo polverizzato, conchiglie, pece, acqua di mare, erbe aromatiche, a volte anche la trementina.
Quanti bicchieri. All’Ultima Cena, come nella cena di Pesach, non meno e non più di quattro bicchieri. Un quinto bicchiere, in era posteriore, dopo secoli di dispute teologiche, venne aggiunto per il profeta Elia. Guai però ai commensali che lo bevessero.
Gesù e Branduardi. Un’ipotesi storiografica inquietante giura che Gesù abbia cantato Alla fiera dell’est di Angelo Branduardi a conclusione dell’Ultima Cena. Meglio, che abbia cantato Chad Gadjà, la filastrocca a cui Branduardi si è ispirato. Gli storici sono divisi, noi speriamo di no.
Pane azzimo. È il pane non lievitato: gli ebrei in fuga dall’Egitto non avevano il tempo per preparare il pane normale. L’impasto dell’azzimo deve riposare diciotto minuti: uno in più e comincia a lievitare catturando le spore dei lieviti selvatici nell’aria.
Bretzel. Nelle varie ultime cene, Gesù e gli apostoli mangiano pani di tutti i tipi, ovviamente lievitati, anche dolci (sulla liceità o meno del lievito si esprime Tommaso d’Aquino nella Summa theologica, con un verdetto salomonico, o doroteo che dir si voglia: ognuno faccia come crede).
In un’Ultima Cena affrescata nel 1541 nella chiesa di San Leonardo a Tesero, in Val di Fiemme, compare il bretzel. Non sono state tramandate ultime cene con i wurstel o con la choucroute.
Porzioni. Dal 1000 al 1700 la dimensione delle pietanze è aumentata del 69,2 per cento, quella dei piatti del 65,6 per cento, e il pane servito in tavola è cresciuto del 23,1 per cento. Quanto al menù, nei quadri accanto a pane e vino compaiono: pesce nel 18 per cento dei casi, agnello nel 14 per cento, maiale nel 7 per cento (in quantità minori, anche pollo, gamberi e molto altro; nel Rinascimento le lepri). Il calcolo è stato fatto, analizzando i pasti raffigurati in 52 quadri (da Duccio di Boninsegna a Tiepolo) con un software ad hoc, da due fratelli americani, Brian e Craig Wansink, il primo docente di marketing ed economia applicata alla Cornwell University, il secondo docente di teologia al Virginia Wesleyan College. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sull’ International Journal of Obesity.
Record. La pagnotta più grande di tutte (grande quanto la testa degli apostoli) l’ha dipinta Salvador Dalì nel 1955. Nella sua Ultima Cena si mangia solo pane e vino.
Pollo. Comincia ad apparire nelle ultime cene medievali, assieme al pesce: in quanto cibo di magro dei monasteri, si ipotizza. Nell’Antico Testamento il gallo è citato due volte, la gallina mai. Nei Vangeli il gallo appare tredici volte, la gallina una volta sola. In compenso ci sono le quaglie: il collerico dio dell’Antico Testamento le fa piovere a quintali, e per di più avvelenate, sugli ebrei nel deserto che si lagnano per la dieta monotona a base di manna.
Manna. Nella Bibbia ha sapore di focaccia al miele, è minuta e granulosa, fine come la brina gelata sulla terra. È con ogni probabilità una secrezione vegetale zuccherina della tamarix mannifera, oppure una varietà di licheni.
La vera cena. Una vera Pesach ebraica, rarità per l’antiebraica iconografia cristiana, fu dipinta dal fiammingo Dierick Bouts nel 1464 a Lovanio.
Cena vegetariana. Benedetto XVI, nel discorso del giovedì santo del 2007, sostenne che Gesù potrebbe avere celebrato la Pasqua con gli Esseni, che erano vegetariani. Niente agnello, quindi.
Chi cucinò. Secondo il Vangelo di Luca, il compito toccò a Pietro e Giovanni.
Gesù chef. Gli episodi in cui Gesù offre cibo o lo cucina (il pesce da lui arrostito per gli apostoli a Tiberiade, per esempio) sono numerosi nei Vangeli, come pure gli apologhi “gastronomici”. Gesù sapeva come si fa il pane, come si pota la vigna e si fa il vino, come si sala una pietanza e come si distingue un pesce buono da uno da scartare. Probabile che conoscesse anche l’uso della mostarda (mustum ardens, mosto ardente, cioè piccante, in latino), come dimostrerebbe la parabola sul granello di senape.
Il tavolo dell’Ultima Cena. La reliquia, in legno di cedro, è conservata a Roma, nella cappella del Santissimo Sacramento presso la basilica di San Giovanni in Laterano.
Il piatto di Gesù. È conservato a Genova, nel museo del tesoro della cattedrale di San Lorenzo.
Il Cenacolo più ricco. Due almeno: quello dipinto da Andrea del Castagno nel 1447, con marmi policromi a profusione, e la colossale Ultima Cena del Veronese del 1573, sei metri per tredici, oggi alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, che costò al pittore una convocazione da parte dell’Inquisizione per eccesso di sfarzo e blasfemia.
E quello più povero. Tintoretto, sempre a Venezia nella chiesa di San Trovaso. Una misera locanda, una tovaglia striminzita e non stirata, fiaschi di vino per terra, sedie impagliate e rovesciate.
Le anguille di Leonardo. Lo storico dell’alimentazione John Varriano nel 2008 ha dato un nome al pesce che figura nell’Ultima Cena di Leonardo: era l’anguilla in agrodolce, cioè arrostita e poi marinata in succo d’arancia e di melograno. Una pietanza improbabile per Gesù: l’anguilla perché non era kosher (era un pesce privo di pinne e squame, quindi tabuizzato), l’arancia perché arrivò dall’Estremo Oriente nel IX secolo dopo Cristo.
Leonardo commestibile. Un’Ultima Cena in cioccolato è stata realizzata dall’artista brasiliano Vik Muniz, autore anche di copie della Gioconda a base di gelatina e di burro d’arachidi. Foto delle opere si trovano al Moma di New York e alla Tate Gallery di Londra. Una riproduzione scolpita nel sale si trova invece in Polonia, nella cappella di Santa Klinga all’interno della miniera di salgemma di Wieliczka. Ha 800mila visitatori l’anno, contro i 375mila del Leonardo originale.

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