Sciascia e il lato criminale del potere

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“Il Cavaliere e la morte”
(Leonardo Sciascia )

Costruito come fosse un giallo, “Il cavaliere e la morte” è l’ennesimo racconto di Sciascia di cui si parla del potere e del suo lato criminale. Racconto che diventa apologo negativo di un sistema malato, il nostro paese e che Sciascia si sentiva in dovere di raccontare. “Il mio ruolo “è di dire le cose che noto o che scopro nella realtà: due e due fanno quattro e, identificate certe premesse, il risultato sarà inevitabile”. E ancora “Nessun dono profetico: basta, ripeto, conoscere e osservare, e avere il coraggio di opporsi al conformismo della verità ufficiale”. Protagonista di questo breve racconto è il Vice, un funzionario di polizia che non ha nome e che è mortalmente malato; insieme al suo capo, devono indagare sulla morte di un avvocato famoso, Sandoz, trovato dopo una cena in cui ha scambiato un bigliettino col potente presidente dell’Industrie Riunite. Un gioco, spiega il presidente, con un certo fastidio, ai due poliziotti che si sono permessi di andarlo a disturbare.

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Lo zelo del capo, impedisce al protagonista di approfondire ufficialmente la pista che porta all’importante industriale, autore, insieme all’avvocato, di certi intrallazzi che è bene non vengano resi noti. Il nostro investigatore è particolarmente affezionato ad una famosa incisione di Albrecht Durer: “Il cavaliere, la morte e il diavolo”, una riproduzione che si porta dietro ad ogni trasferimento di ufficio; ma ecco l’evento che mette a posto la forma delle cose: l’avvocato avrebbe ricevuto delle minacce telefoniche da un certo gruppo autonominato “i ragazzi dell’89”. Chi sono? A che ’89 si riferiscono? L’indagine parallela e ufficiosa del vice, lo porta ad incontrare altri commensali della cena, fino all’amico Rieti che lo imbocca su una strada ispida: la falsa pista del gruppo terroristico creata ad arte per distogliere l’attenzione e gli intrallazzi di Sardoz, che era anche a conoscenza degli scontri interni nei partiti.
In questo intreccio, come spesso osserviamo nelle storie di Sciascia , conta ben poco la vicenda in sé con i classici ingredienti del genere giallo: l’omicidio, la vittima, le indagini, gli indizi, i testimoni, i sospettati, l’assassino, il colpo di scena. Qui è importante soprattutto il sottotraccia psicologico, giocato con la tipica abilità narrativa dello scrittore siciliano, tra il protagonista principale e gli altri personaggi di contorno, tra la volontà di un uomo, che non ha più nulla da perdere, di far luce sulla verità e, dall’altra parte, la convinzione del Capo di seguire tutt’altra pista, forse per non pestare i piedi ad Aurispa. Una storia tutta italiana: la storia di un potere silenzioso, opprimente, minaccioso, letale, in un luogo e in un tempo non ben definiti. La trama è punteggiata da dialoghi interpretabili in filigrana, dove le parole, la sottile ironia, il doppio senso nascondono il più delle volte realtà inconfessabili, su cui non si ha granché voglia di indagare. Il canovaccio ha un sapore amaro, cupo, doloroso: traspare probabilmente lo stato d’animo con cui Sciascia, da tempo affetto da una grave malattia terminata con la morte avvenuta nel 1989, si accinse a pubblicare questo libro.

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