Il tempo migliore della nostra vita. Scurati e Ginzburg

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Libro del giorno
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«Leone Ginzburg dice “no” l’otto gennaio del millenovecentotrentaquattro. Non ha ancora compiuto venticinque anni ma, dicendo “no”, s’incammina verso la propria fine».
Il “no” di Leone Ginzburg è il rifiuto di giurare fedeltà al fascismo, che il regime richiede a chi vuole conservare la cattedra universitaria. Giurano tutti, non si piegano in tredici (la vicenda è raccontata, nei dettagli, dal bellissimo Preferirei di no di Giorgio Boatti). Più lui, libero docente di letteratura russa.
Il nuovo romanzo di Antonio Scurati racconta la vita di Leone Ginzburg (1909-1944), ebreo russo di Odessa naturalizzato italiano, fondatore della casa editrice Einaudi, uomo di straordinaria forza d’animo (molto belle le pagine sull’infanzia solitaria a Viareggio, dove lo ha lasciato la madre per sottrarlo ai pogrom), cospiratore senz’armi e tra i fondatori di Giustizia e Libertà. E la intreccia con quelle degli antenati dell’autore, i brianzoli Scurati contadini e poi operai metalmeccanici, i napoletani Ferrieri teatranti girovaghi, commercianti, macellai o persi nei mille mestieri che servono a sopravvivere accarezzando la fame e serbando la dignità (c’è anche un nonno amico d’infanzia di Totò). La Resistenza, le resistenze. Il rifiuto comune di lasciarsi sopraffare dalla vita.
E così ci si volta indietro, nel nostro oggi di benessere raggiunto e di bassa pressione ideale, tutto affidato alla cronaca e lontano dal fiato rovente della storia, in cui si è spettatori passivi più che attori, perché «può capitare che il lettore venga rapito dalla fuorviante nostalgia per ciò che non ha mai vissuto e mai vivrà, per ciò che si è avuta la grazia di non potere né dovere mai vivere».
Il titolo del romanzo è tratto dalla chiusa di un asciutto e struggente racconto di Natalia Ginzburg, Inverno in Abruzzo, che rievoca i difficili anni del confino suo, di Leone e dei figli bambini a Pizzoli e la morte di Leone per mano nazista: «Mio marito morì a Roma nelle carceri di Regina Coeli, pochi mesi dopo che avevamo lasciato il paese. Davanti all’orrore della sua morte solitaria, davanti alle angosciose alternative che precedettero la sua morte, io mi chiedo se questo è accaduto a noi, a noi che compravamo gli aranci da Girò e andavamo a passeggio nella neve. Allora io avevo fede in un avvenire facile e lieto, ricco di desideri appagati, di esperienze e di comuni imprese. Ma quello era il tempo migliore della mia vita e solo adesso che m’è sfuggito per sempre, solo adesso lo so».
Bello, non bellissimo, il libro di Scurati. A favore segno la sincerità e la passione con cui lo ha concepito e realizzato. A suo sfavore, impedendogli di essere un gran libro, giocano pesantezze di stile e disomogeneità di narrazione: a tratti si ha la sensazione di avere tra le mani un brogliaccio, a tratti la narrazione si sfilaccia a puro appunto-elenco.

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