Antonio Faraò
Boundaries (Verve Italy/Universal)
Voto: 8/9

Il 13esimo lavoro da leader di Antonio Faraò, intitolato Boundaries, va annoverato tra i suoi più riusciti. Non per nulla è stato scelto come biglietto da visita per la neonata branca italiana della celebre Verve, l’etichetta fondata nel 1956 da Norman Granz, l’impresario che portò alla Carnegie Hall di New York e poi nel mondo la musica afroamericana con il marchio Jazz At The Philharmonic, label che annovera centinaia di album con un palmarès di star assolute, cui si sommeranno a breve i nostri Mattia Cigalini, Fabrizio Bosso, Gaetano Partipilo, Fabio Morgera, e poi forse Stefano Di Battista e Stefano Bollani.
Noto più all’estero che in Italia, il pianista ha collaborato con artisti di ogni caratura, a cominciare dal “maestro” Herbie Hancock, di cui ama appassionatamente i territori sonori, per continuare con Joe Lovano, Jack DeJohnette, Steve Grossman, Wayne Shorter, Bob Berg, Lee Konitz, John Abercrombie… Oggi, superate le 50 primavere, disegna i suoi nuovi “confini” (come recita il titolo del cd) espressivi, affidandosi a un quartetto “italiano”: con lui sono infatti il bravo sassofonista Mauro Negri (non di rado pregiato solista), il contrabbassista macedone Martin Gjakonovski (a fianco di Faraò da oltre 15 anni) e il batterista Mauro Beggio, una scoperta di Enrico Rava.
copa faraòI riferimenti sono chiari. Il post-bop in salsa tyneriana (ovvero secondo la lezione di McCoy Tyner, il pianista del sommo John Coltrane) si incontra in maniera aperta e straight con la fusion soft dell’Hancock migliore, con le introspezioni a basso contenuto di free jazz del John Taylor più lieve e con le volate panoramiche di un aereo Martial Solal.
Più arguto che elegante, più sorridente che stiloso, Faraò punta più al discorso che alla trovata, incontra il funk, si diverte con strutture alla Miles Davis, riprende lo standard hancockiano “Maiden Voyage” e l’insinuante “Hand Jive” del batterista Tony Williams, dedica un brano ai figlioletti e chiude con la sospesa “Around Phrygian”, i cui pochi colori tesi aprono il futuro del quartetto a nuovi orizzonti.
Il tutto con una copertina improponibile, in cui si mostra a metà tra il Biagio Antonacci “homo eroticus” e i modelli dell’intimo targato D&G: “potrei dire che volevo mettermi a nudo, che volevo dare un senso di libertà senza confini o anche che volevo proporre il contrario delle copertine dell’era Papetti con le femminucce semivestite, ma in realtà non so bene perché la copertina sia venuta così”.
Invece il disco perché è venuto così? “Rispetto al precedente lavoro con musicisti importanti come Lovano e DeJohnette, che suonano in modo aperto con assolo che quasi non si possono neppure scrivere sul pentagramma, ho voluto mettere in cantiere un progetto autentico, con idee melodiche dei brani più complesse, meno easy. Anche per questo ho deciso, dopo vent’anni, di tornare ad avere un gruppo tutto italiano (il bassista è di casa nel nostro Paese, ndr.) e di investire in prospettiva su questa collaborazione. Ho voluto una formazione che avesse lo spirito espressivo del quintetto di Miles degli anni 60 e cercasse sempre una visione laterale dei brani senza lasciarsi troppo condizionare dalla loro struttura, con mente sgombra e un approccio quasi infantile, innocente all’ispirazione istantanea.”

Che dire? Basta citare la cura di oltre 250 cd compilation di new age, jazz, world e quant’altro? Bastano una ventina d’anni di direzione artistica dell’Etnofestival di San Marino? Bastano i dieci come direttore responsabile di Jazz Magazine, Acid Jazz, New Age Music & New Sounds, Etnica & World Music? Oppure, e magari meglio, è sufficiente informare che sono simpatico, tollerante, intelligente... Con quella punta di modestia, che non guasta mai.

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