Le variazioni Reinach di Filippo Tuena

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filippo_tuena_ecco_perche_ho_riscritto_le_variazioni_reinachIl pensiero va subito a “Dora Bruder”, struggente e implacabile capolavoro di Patrick Modiano. Lì era di scena una quindicenne ebrea negli anni dell’orrore nazista e della vergogna francese, ribelle o forse soltanto spaurita, in fuga dalla famiglia e destinata ad Auschwitz. Era di scena il tentativo di fare rivivere una persona da più che scarne fonti documentarie, interrogando le strade e le piazze, i documenti e i verbali di polizia. Dando corpo ai fantasmi.
Gli spettri popolano anche questo più recente capolavoro, “Le variazioni Reinach” di Filippo Tuena, vincitore del Premio Bagutta nel 2005 e riproposto in una nuova edizione che toglie (poco), aggiusta e lima la prima.
Qui sono di scena due famiglie dell’aristocrazia ebraica francese. I Reinach, di origine tedesca (Francoforte), figli dell’haskalah, l’illuminismo ebraico. E quindi razionalisti, irreligiosi o al massimo teisti (nella villa greca Kérylos fatta costruire nel 1900 dal filologo e archeologo Theodore, membro del Collège de France e curatore dell’opera di Flavio Giuseppe, a Beaulieu vicino a Nizza, c’è un altare “al dio ignoto”), banchieri ma anche intellettuali, coinvolti nella vita pubblica (Joseph fratello di Theodore è parlamentare socialista, difensore pubblico del capitano Dreyfus del quale sposa la figlia, segretario del primo ministro Leon Gambetta), collezionisti munifici (biblioteche, quadrerie, interi palazzi eretti a musei, vengono donati allo stato). E i Camondo, sefarditi di origine costantinopolitana, anch’essi banchieri, resi nobili da Vittorio Emanuele II nel 1867 per avere finanziato la terza guerra d’indipendenza contro l’Austria.
Tuena segue soprattutto i discendenti, frivoli e rentier a un primo sguardo, stoiche vittime dell’annientamento nazista alla distanza. Leon Reinach, compositore di musica (di lui resta una sonata in re minore per violino e piano, rintracciata proprio da Tuena e negli ultimi anni incisa da più di un interprete), uomo ai margini del ritratto, adulto solitario e appartato, quasi un Mattia Pascal che si esercita a scomparire in vita. E sua moglie Beatrice de Camondo, la bambina cresciuta senza madre (la bella e sventata Irene Cahen d’Anvers ritratta da Renoir che lascia il marito e si fa cattolica per convolare a nuove nozze con lo spiantato conte Serpieri, palafreniere e avventuriero) accanto a un padre murato nella solitudine e intento a cancellare ogni traccia del passato, la ragazzina grassoccia che Boldini ritrae di malavoglia, l’amazzone mascolina che eccelle nel dressage, la donna di mezza età imbruttita e sorda che si fa anch’essa cattolica ma, in uno slancio tanto irrealistico quanto commovente, continua a ingaggiare guerre burocratiche con gli occupanti (il suo conto corrente è congelato dai nazisti e da Vichy) per pagare le pensioni alla madre vecchia e e spiantata e agli ex domestici della famiglia, perché è preoccupata più del loro sostentamento che di se stessa. I loro figli Fanny e Bertrand, la graziosa e vivace amazzone che trionfa ai concorsi ed è forse innamorata di un Rothschild e il ragazzone che non va bene a scuola e ripiega sul mestiere di ebanista e restauratore.
Il bel mondo francese prossimo all’arte e alla cultura (Proust è loro amico, come lo sono Fauré, Degas e la principessa Bibesco), l’eletta schiera che si imparenta con i Rothschild e con gli Ephrussi. Che, più sventata e indifesa che arrogante, si ritiene esente dalle persecuzioni: non tanto perché è ricca, quanto perché ha illustrato la Francia con la munificenza delle donazioni, con il rigore degli studi, con i contributi alla scienza, con il sangue versato per la patria. Non servirà a niente: spogliati di tutto, internati dapprima a Drancy (“Bisogna provare tutto, essere i primi e gli ultimi” scrive Leon in una cartolina al cugino Fabrice) dopo un tentativo di fuga tardivo e goffo, finiranno ad Auschwitz. Nulla si saprà della loro fine, anche le date di morte resteranno a lungo contraddittorie.
Tuena, come Modiano, interroga carte e segni. Più di Modiano, mischia ricerca e reverie, ascolta le voci del passato che crede di avvertire ancora nei luoghi dove i Reinach e i Camondo sono passati, crede che raccontare una storia sia rispecchiarsi in un destino. Costruito per variazioni come nei brani che abbiamo amato, ognuno scelga il suo, le variazioni Goldberg di Bach, quelle di Beethoven su un valzer di Diabelli o quelle di Mozart su un tema di Haydn, questo splendido e nobile romanzo ha anch’esso un tema (duplice): la scrittura e la memoria. La lotta tra la memoria e l’oblio (è strano come si finisca per sapere poco, per perdere le tracce di chi è stato inghiottito dalla storia, come se settant’anni fossero sette secoli). La fatica e il dovere di raccontare: perché nessuno scrittore è un vero scrittore se non guarda il Male negli occhi, e perché bisogna che il lettore sappia di quali esili fili è intessuta una storia. Non una storia rotonda e d’invenzione dove lo scrittore riempie i buchi della realtà con l’immaginazione, ma una storia congetturale dove occorre fare parlare una branda infestata dalle cimici, il frustino di un kapò o una foto in bianco e nero dove un bambino con le gambe lunghe sta sull’altalena, dove si può intuire una carezza o un silenzio, una complicità o una fuga. Una storia che è anche storia di chi scrive e di chi legge: un rispecchiarsi nel pozzo buio dell’antisemitismo e del nazismo, che inghiotte anche il nostro volto.
Non c’è autofiction, nel romanzo di Filippo Tuena: lo scrittore che parla di sé in terza persona non è il narcismo postmodern che a ondate alterne ci diverte o ci irrita, ma un virgilio che ci guida nell’inferno appena trascorso e mai del tutto sopito (chi crede che niente ritorni, che l’isteria rigorista tedesca di oggi e le squallide chiassate dei populismi e delle xenofobie non significhino niente, ricordi, Tuena rievoca quel terribile e non troppo distante passato: anche le persecuzioni degli ebrei, che si conclusero con lo sterminio di massa, cominciarono con la “pulizia” nei confronti dei poveri, dei cenciosi e chiassosi e impresentabili ebrei polacchi e russi, in fuga dai pogrom come oggi in Africa e in Medio Oriente si fugge da guerre e massacri). Non Roth o Carrère dunque, o l’infimo Houellebecq: al massimo il Salinger di “Alzate l’architrave, carpentieri” che scosta un lembo del tendaggio e dice, caro lettore, ecco che cosa c’è dietro la scena illuminata del racconto.
Un grande libro deve avere ambizione e coraggio, l’ambizione di andare oltre le proprie forze e il coraggio di inciampare. Deve avere una storia che urge e le parole giuste (lo stile giusto) per dirla. Deve, in questa storia, parlare di chi scrive e di chi legge. “Le variazioni Reinach”, con il suo periodare breve e ardito, paragrafi staccati tra loro con pochissima punteggiatura, possiede tutte queste qualità senza avere niente di esibizionistico. Non so se questo sia il più bel romanzo italiano degli ultimi dieci anni, di certo è il più bel romanzo italiano che ho letto negli ultimi dieci anni.

2 COMMENTI

  1. Buonasera Bartleby,

    solo ora leggo il suo contributo alla conoscenza di
    un libro che incontrai vari anni fa e per il quale anche io nutro una
    personale affezione. In questi anni, quando le circostanze lo hanno
    permesso e favorito, ho perorato la lettura di questo romanzo. Non so
    come lei lo abbia incontrato. Io lo scoprii grazie alla trasmissione
    “Passepartout” in cui Philippe Daverio, in compagnia di un parente del
    ramo italiano della famiglia (probabilmente da parte dei Camondo, adesso
    non ricordo), visitava il museo parigino “Nissim de Camondo”. La casa
    di famiglia parigina donata dal conte Moise de Camondo allo stato francese nel 1935
    in memoria del figlio Nissim morto in guerra nel 1917. L’itinerario proposto e
    la storia furono così interessanti da farmi cercare il libro e
    leggerlo, in attesa di recarmi a Parigi e visitare di persona anche il museo. Mi
    fa molto piacere leggere di un altro estimatore che lo propone per una appassionata ed appassionante lettura.

    Un saluto

    • Buonasera Truemmerfrau,
      ho scoperto Filippo Tuena perché un’amica me l’ha suggerito mentre stavo leggendo “Un’eredità di avorio e ambra” di Edmund De Waal. E ne sono rimasto conquistato. La ringrazio per le parole lusinghiere che ha voluto spendere per la mia recensione.
      Bartleby

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