Tenero e pensoso (come Il discorso del re) Danish Girl di Tom Hooper  subisce già l’accusa di essere poco sconvolgente. E non è poco pensando che sul tema del transgender si corre sempre il rischio del melò kitsch per morbosi. Invece è la storia del pittore Einas Wegener, specializzato in paludi danesi (guarda un po’…), che inizia per gioco a travestirsi da donna per aiutare la moglie pittrice rimasta senza modella e all’improvviso scopre che la donna celata in lui  da sempre (Lili) vuole uscire. C’è poco da ridere: la scienza del tempo lo considera perverso, omosessuale o schizofrenico, il costo sociale è pazzesco, il rischio di operarsi altissimo: Einart sarebbe il primo a provarci. E decide di diventare compiutamente Lili. Un pioniere. Troppo facile? Ma perché no?
L’attesa di Pietro Messina invece è un film di attese: all’inizio per esempio attendi che gli attori parlino, passano lunghissimi periodi tra una parola e l’altra mentre vengono mostrate belle immagini ricercate (forse troppo? forse un po’ compiaciute?) e una ragazza francese raggiunge la casa siciliana di un ragazzo amato, e trova la madre di lui (francese) sconvolta dal recente lutto del fratello e sicuramente da altro. Per correttezza non andremo oltre, per non rovinarvi l’attesa. Tra le varie attese dell’opera prima dell’aiuto regista di Sorrentino  c’è anche l’uso metaforico di Waiting for a Miracle di Leonard Cohen, ballata (nel senso che la ballano). Misteriosamente, come per altri film italiani, ero nella sala dove non si sentono mai gli applausi sentiti da altri giornali.
Meriterà un discorso (e un pezzo) a parte Krigen.

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