Venezia 2015. Mondo, abbiamo un problema…

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Man Down di Dito Montiel prende in  contropiede: intanto perché la frase codice per i combattimenti  (“Uomo a terra”) è usata come un codice d’amore, e poi perché una parte del film sembra l’addestramento di un marine che parte per qualche posto a fare le solite cose, e in un’altra parte sembra tornato a fare resistenza interna contro un nemico che ha invaso l’America. Al centro c’è un problema coniugale e il tutto è spalmato in un’intervista a flashback con uno psicologo. Rivelazioni che non si possono dire e una povertà di mezzi degna di un vecchio videogame. Mezza sorpresa? Un quarto di sorpresa? Frase chiave a spray su un muro: America We Have a Problem

Nessuna sopresa per Rabin The Last Day di Amos Gitai: è il suo consueto cinema che ricorda l’attraversamento di un deserto israeliano: pietroso, lento, doloroso, preciso. Il tema è: quando un premier ebreo viene paragonato a un nazista, maledetto con un rito religioso e assassinato da un oltranzista delle frange religiose più fanatiche e politicamente a destra, è giusto che una commissione d’inchiesta valuti solo i difetti delle procedure di sicurezza o dovrebbe interrogarsi di più su radici di intolleranza interna? Il tema è politicamente esplosivo.

Politica esplosiva, ma in mix di mistero, in Follia (Abluka) di Emin Alper: in una Turchia che non sembra sul Bosforo, in una periferia ai bordi dell’assurdo, un ex galeotto ricattato dalla polizia viene usato come spazzino e spia da funzionari vagamente kafkiani e prepara relazioni/delazioni assurde; il tutto s’incrocia con vicini gentili, un fratello sull’orlo della paranoia, la memoria di un altro fratello scomparso, ma che forse sorveglia tutti, cani cacciati allo stato brado e cani accuditi in clandestinità, percezioni notturne, illusioni erotiche, esplosioni, sogni e segni di una dittatura militare che s’infiltra e pattuglia i quartieri e le coscienze.

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