David Gilmour, esordio “scatenato” a Pola

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“Rattle that lock and lose the chains”, scuoti il lucchetto e perdi le catene. Sono le parole che compaiono sulle T-Shirt del nuovo tour di David Gilmour, tratte dalla title track del nuovo album solista “Rattle That Lock” in uscita il 18 settembre. L’ex Pink Floyd (il gruppo è stato dato di recente per definitivamente sciolto, dopo la morte di Richard Wright e l’uscita dell’album in parte postumo “The Endless River”) torna dopo alcuni anni in tour e per la prima volta nell’Arena romana di Pola, in Istria, prima di ritrovarsi in Italia all’Arena di Verona stasera e a Firenze domani.

Con sé ha alcuni fidati amici di sempre come l’ex Roxy Music Phil Manzanera, il tastierista Jon Carin, Steve DiStanislao alla batteria, Guy Pratt al basso, tutti parte della storia live dei Pink Floyd o dei loro dischi. Al sax tenore e baritono e al clarinetto c’è Theo Travis, mentre un nuovo tastierista, Kevin McAlea, subentra a Richard Wright replicandone le parti, due coristi, Bryan Chambers e Louise Marshall, completano il quadro sul grande palco dominato alle spalle dal consueto schermo tondo gigante. Niente effetti speciali a parte i filmati e le luci essenziali ma mirate di Marc Brickman.

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I croati hanno fatto un buon lavoro in un’arena bimillenaria che, al contrario di quella di Verona, conserva tutta la parte muraria esterna ma ha perso quasi totalmente l’interno. Una grande pedana in legno crea un’ampia platea e grandi tribune moderne creano il ventaglio del teatro per una capienza di circa cinquemila posti a sedere, qualcosa in piedi dove però si vede poco e male.

Del disco in uscita sono stati diffusi alcuni assaggi in rete, ma il concerto è la prima vera occasione di ascoltare il materiale nuovo mentre ferreo è il controllo su fotocamere e registratori. Cosa un po’ ridicola dato che passano smartphone in grado di filmare tutto con qualità HD, anche se lo staff Pink Floyd è attivissimo sulla rete a far cancellare ogni traccia puibblicata in violazione dei copyright.

Gilmour ha una folta barbetta bianca e una gran voglia di suonare cose nuove. “5 a.m.” crea subito l’atmosfera strumentale con la sua Fender in evidenza, portando a “Rattle that lock” con lo schermo che mostra disegni animati inquietanti e apocalittici di una città romana con la sua arena devastata, e cuccioli che divorano le loro prede.

E’ chiaro che David vuole divertirsi con le sue nuove canzoni, ritmi diversi, terzinati e swing, interventi di clarinetto, cercando, non sempre con successo, di inventare nuove linee di chitarra dopo quelle ormai entrate nella storia del rock. “Faces of Stone” precede la celebrazione dei 40 anni di “Wish you were here” con una emozionante versione della title track, che attraversa altri due brani nuovi, “The Boat Lies Waiting” e “The Blue” per poi esplodere con “Money” e “Us and Them” in sequenza.

La prima parte del lungo show si chiude con “In any tongue” e “High Hopes” con la “division bell” appesa alle spalle di DiStanislao e suonata in controtempo e il filmato originale con la grande testa di Syd Barrett portata a braccia.

La seconda parte è quasi totalmente storia dei Pink Floyd, il grande caos creativo di “Astronomy Dominé”, la corale ed entusiasmante “Shine On You Crazy Diamond (parts I-V)” , la ripresa di un vecchio brano di “Atom Heart Mother”, “Fat Old Sun”, una splendida versione di “On An Island” dal suo precedente album solista, e la nuova swingante “The Girl in the Yellow Dress”, che porta a dei sapori blues che, per esempio, Sting non possiede nelle sue incursioni jazzate.

Pur se un po’ sofferente di voce (ma ben sostenuto dai compagni di viaggio fino a creazione di cori di sei voci) David mostra che le sue dita tozze e cicciotte, col suo incedere lento e preciso, sono una benedizione poiché lo obbligano a cercare timbri e percorsi espressivi essenziali e per nulla funambolici dove ogni nota, tirata allo stremo, ha un peso straoridinario.

La funkeggiante, corale e nuova “Today” scivola via veloce ma bastano due note per entrare nelle cupe atmosfere di “Sorrow” e “Run Like Hell” ovvero l’oppressione pinkfloydiana di “The Wall” al suo apice.

I bis, dopo due ore e mezza con venti minuti di intervallo, non arrivano per prassi ma reclamati a tal punto e con tale intensità da un pubblico arrivato passando vari confini, che lo stesso Gilmour, tornato sul palco, non riesce a riprendere e rimane estasiato e grato ad ascoltare l’ovazione interminabile e calda della folla. Poi gli orologi di ime esplodono, con le relative immagini e il tempo di “Dark Side of the Moon” con la conseguente ripresa di “Breathe” vedono la folla ormai sotto il palco, porte aperte a tutti già da mezz’ora, e il trionfo conclusivo di “Confortably Numb”.

Annoto come pochi si azzardino a far karaoke come ormai d’abitudine in Italia. Chi si è fatto chilometri per assistere allo show vuole ascoltare in silenzio e godere della musica senza sovrastarla. Anche quei momenti in cui il coro del pubblico è inevitabile, la musica dal palco domina indisturbata. Così dovrebbe essere sempre.

Giò Alajmo ha la stessa età del rock'n'roll. Per 40 anni (1975/2015) è stato il giornalista musicale del principale quotidiano del Nordest, oltre a collaborare saltuariamente con Radio Rai, Ciao 2001, radio private e riviste di settore. Musicalmente onnivoro, è stato tra gli ideatori del Premio della Critica al Festival di Sanremo e ha scritto libri, piccole opere teatrali, e qualche migliaio di interviste e recensioni di dischi e concerti.

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