Io sono Ingrid. E sono un mistero…

Vita, apparentemente semplice, di Ingrid Bergman

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Io sono Ingrid
di Stig Björkman
con Jeanine Basinger, Pia Lindström, Fiorella Mariani, Isabella Rossellini, Isotta Rossellini
Voto 8

Il documentario Io sono Ingrid dello svedese Stig Bjorkman (in uscita nei cinema per due soli giorni, il 19 e 20 ottobre) è uno strano viaggio. Di questa attrice, nata nel 1915, rimasta orfana giovanissima, morta nell’82, a 67 anni, per un cancro al seno, ognuno di noi poteva pensare di conoscere e aver visto già molto: gli esordi giovanissima in Svezia, la golden age a Hollywood, la mitica lettera scritta a Roberto Rossellini dopo aver visto Roma città aperta, gli otto anni trascorsi in Italia al suo fianco, l’amore che le diede tre figli, una manciata di film poco apprezzati dal pubblico e che le costò l’ostracismo di un’America ancora troppo puritana per accettare una donna così libera da abbandonare marito svedese, figlia e fama per inseguire se stessa. E invece guardando quelle immagini in bianco e nero, per gran parte tratte dai filmini personali e bellissimi che la Bergman girò per tutta la vita, e ascoltando quella voce narrante in prima persona che racconta di sè in lettere ad amiche e diari, l’ombra che ci viene incontro ci è sconosciuta e allo stesso tempo anche troppo famigliare.

Come non condividere quell’inquietudine che Ingrid prova per tutta la vita? Poco più che 18enne scrive queste parole:“Sono una delle persone più timide al mondo, ma dentro di me sento di avere un leone che difficilmente si addomesticherà”. Più tardi, già sposata e famosa: “Solo metà di me è viva, l’altra soffoca chiusa in una valigia. Cosa dovrei fare?” Oppure: “È come se dentro di me abbia sempre vissuto un uccello migratore”. E ancora: “Ho cercato con tutta me stessa di tollerare la tristezza quotidiana e di essere felice, ma non ho mai capito quale felicità desiderassi”. E ormai anziana in un’intervista: “Non voglio radici, voglio essere libera” Anatomia dell’irrequietezza, solitudine, desiderio di andare, cambiare, misurarsi sempre con sfide diverse: “Non chiedo molto, voglio tutto”. E mentre scrive questi pensieri Ingrid gira i filmini che vediamo, in cui la realtà pare perfetta e immutabile per sempre: lei è così radiosamente bella da illuminare lo schermo, così semplicemente elegante da far perdere la testa, sia che viaggi col primo marito in un Europa sull’orlo della guerra, percorsa da soldati nazisti, sia che nuoti in piscina a Hollywood con la primogenita Pia, tutta sorrisi, scherzi, giochi. Oppure filmi la sua nuova vita e i suoi nuovi bambini insieme a Rossellini. Ville in riva al mare, case pranzi, compleanni, baci, sorrisi, abbracci. Un mondo meraviglioso.

La tensione al tutto: arte, lavoro, figli, amore, felicità. Ingrid è esigente. Nelle immagini che filma da corpo al “sogno” della sua vita, ben diverso da una realtà sempre imperfetta. Dalle testimonianze dei figli si capisce Ingrid non c’era praticamente mai. Robertino, Isabella e Ingrid parlano con ironia e tenerezza di quei genitori maldestri e inquieti che un giorno erano presenti e sei mesi no, ma pronti a telefonare tre volte al giorno o a correre se qualcuno di loro stava male. Rossellini partirà per l’India e la lascerà, lei andrà di nuovo in America. Affamata di lavoro, di cinema (Hitchcok dice di lei: “Prende i film più seriamente della vita”) Ingrid ha bisogno dell’obbiettivo che la inquadri, che la guardi come faceva suo padre quando era piccola: “mio padre filmava me, io filmo il mondo”. Solo di fronte alla cinepresa si sente libera. Poi c’è il terzo matrimonio, la vecchiaia, il suo volto segnato in Sinfonia di autunno di Ingmar Bergman, con cui litiga spesso. Due svedesi alle prese con i loro fantasmi. Alla fine, quando lo schermo si fa buio, allo spettatore rimane negli occhi un’immagine: il suo primo provino in America “senza trucco né rossetto” come è scritto nella didascalia prima del ciak. La bellezza perfetta che emana luce e fa innamorare.

P.S. 1) Una lettera di Robert Capa
Nel 1945, alla fine della guerra, Ingrid va in Europa per le truppe. E incontra a Parigi Robert Capa con cui va a Berlino: lei dice semplicemente “Mi sono innamorata”. Lui le scrive una lettera che vale la pena riportare: “Scrivimi che sarai gentile e bella in modo straziante e che hai messo lo champagne in frigo per il 12 marzo. Non firmare contratti che inevitabilmente ti renderanno più un’azienda che un essere umano, fai attenzione al successo, a volte è più pericoloso di una sventura e può corromperti. Ti ho cercata al telefono mia amata ragazza svedese a Hollywood. Ti amo veramente. Robert”.

P.S. 2) Ricordi personali
La Bergman è stata molto presente nella mia vita di ragazza. Perché di lei parlavano molto le donne di casa mia: mia nonna e mia madre che cinefile non erano, ma amavano a loro modo il cinema. La prima sosteneva che Rossellini, come spesso fanno gli uomini, aveva mortificato la sua bellezza folgorante, vestendola come una donna qualunque e tagliandole i capelli. Non aveva fatto forse lo stesso quell’altro genio di Orson Welles con la Hayworth?
Mia madre predicava che ogni passione è destinata a finire, anche la più forte, la più perfetta, se anche la loro si era consumata. Perché l’amore è insidioso e fatalmente non dura.
La sottoscritta, 13enne, dopo aver visto in una sera solitaria davanti alla tv Notorius, sognava di essere come lei, un po’ avventuriera, un po’ brava ragazza, ma soprattutto di trovare un uomo come Cary Grant che la salvasse. Molto più tardi in un gruppo di cinema di autocoscienza femminista “Notorius” fu sezionato dalla prima sequenza all’ultima secondo la dura legge di “la donna oggetto del desiderio e dello sguardo maschile”. Io non indagai il tema ma mi soffermai sull’importanza degli oggetti nel creare la suspence Hitchcokiana. Chissà perché. Forse dopo essermi innamorata di lei, mi ero innamorata dell’oggetto film.
Tutto questo per dire come certo cinema non solo attraversi il tempo, ma sia anche misteriosamente legato alle nostre vite.

 

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