In queste ore pensavo che tacere fosse il miglior modo di reagire al clamore che si è creato coi fatti luttuosi di Parigi.

Immaginavo che un clima di larga compassione si sarebbe esteso a tutti gli stati occidentali, i quali avrebbero colto l’occasione per fare riflessioni necessarie sulla visione distorta che abbiamo voluto avere del mondo, così come si è conformato negli ultimi decenni.

Immaginavo che una canzone malinconica avrebbe attraversato le piazze, per ognuno diversa, identica per tutti nel sentimento.

E pensavo che avremmo finalmente cominciato a capire che se per troppo tempo si perseguono strade sbagliate, evitando di fare i dovuti approfondimenti e le doverose comprensioni di mondi così lontani eppure così vicini a noi, infine si raccoglie dolore.

E che tutto questo ci portasse a un mea culpa.

A un bisogno profondo di individuazione di chi siamo e di cosa è il mondo.

Invece ovunque fioriscono retoriche d’ogni sapore.

Alcune testate giornalistiche escono con titoli idioti e colpevoli di meschine approssimazioni sui fatti, mistificando e ciarlando sulla necessità di sterminare, eliminare, attaccare e così via.
Per non essere cancellati, si dice.

Per non essere invasi.

Di più, in molti casi, da pulpiti altissimi, si è parlato di “guerra e di “barbarie.

Questo mi porta a pensare che molte più persone di quanto io creda, e molto più in alto di quanto si pensi, non sono dopotutto in grado di fare le valutazioni che ci si aspetterebbe da capi di stato, da capi di ordini religiosi e da direttori di giornali. O forse, peggio, tanta miopia nasconde interessi non rivelabili.

Vediamo perché così non va.

Barbarie” è un termine antico, usato con diverse accezioni, la più nota quella che fa riferimento agli invasori, come gli Unni, i Vandali, gli Ostrogoti e altri, che afflissero i nostri antenati all’epoca dell’impero romano. Rimanda all’immagine di individui rozzi, crudeli, spietati.

Questi erano vissuti come profondamente diversi da noi, dalla nostra presunta finezza e dalla nostra elevazione.

Erano il nemico, chi non è amico, e che quando viene, viene per portare male.

Applicare un simile epiteto a gente convintamente assassina col pretesto di agire in nome di dio, (qualcosa che non dovrebbe poi stupire, giacché si è già visto), è una contraddizione profonda, che cela il disagio di aver partorito il mostro che ora intende mangiarci.

Nei casi dei responsabili degli attacchi che sappiamo, stiamo parlando di gente che è cresciuta nelle nostre città, ha frequentato le nostre scuole eccetera, sinché non ha ritenuto più importante unirsi al sedicente “stato islamico” per punire il corrotto occidente.

Scavando nelle vite di questi ragazzi che da bravi figli di famiglia si trasformano in carnefici senza scrupoli, si scopre che erano figli, fratelli, padri normali e giudiziosi.

Non provengono affatto da luoghi lontani dove la crudeltà è una condizione consueta.

Sono cresciuti, seppure ai margini, in città in cui vige da tempo, almeno a parole, il concetto di giustizia, uguaglianza e di rispetto della vita umana.

Nelle fotografie che circolano, tranne rare eccezioni, ci appaino in effetti per quello che sono: delle persone normali.

I loro parenti rilasciano talvolta interviste in cui li descrivono come tranquilli, dichiarando che a nessuno era mai venuto il sospetto che potessero fomentare in segreto disegni tanto orribili e avversi a ciò che li ha, anche se male, cresciuti.

Non sono dunque “barbari”, a meno che la barbarie non sia insita nella nostra stessa società.

Il Presidente Hollande farebbe dunque meglio a ripassare quei tratti recenti della storia del suo Paese, in cui ha sorvolato sulle inquietudini che già un decennio fa hanno scosso la Francia, per risalire ad alcune delle possibili fonti di odio alimentato in casa da gente colpevolmente distratta come lui.

A quanto pare, invece, monsieur Hollande ritiene più liberatorio parlare di “guerra” e “vendetta” come se si stesse giocando a Risiko, sperando in tal modo di sviare l’opinione mondiale sulle reali colpe che il suo Paese ha maturato, (compresa quella di non aver saputo prevedere un simile attacco, malgrado i recenti trascorsi) e aspettandosi invece per sua convocazione una corale chiamata alle armi.

Senza riflettere sul fatto che simili mosse interventiste e sconclusionate sono in parte alla base dei disordini internazionali dei quali i civili innocenti del suo, come di diversi altri stati, pagano con la vita le conseguenze.

Ovunque si dice: io sono con la Francia.

Certamente. Il simbolo della pace sapientemente riletto in chiave “Tour Eiffel” è largamente condiviso ovunque da tre giorni a questa parte.

Come non essere solidali con chi ha subito una simile tragedia. Sebbene uno spiacevole fumo retorico aleggi ovunque.

Ma la domanda scomoda che sorge spontanea è questa: come mai il mondo occidentale, per fare solo un esempio, non si è dichiarato solidale con Beirut e i suoi morti di un recentissimo attentato?

La scoperta del male solo quando questo bussa alla nostra porta non ci fa onore né rende giustizia ai morti di ogni latitudine.

Perché morire in un mercato vendendo frutta non è meno ingiusto che morire in teatro, e un ragazzo cresciuto tra i tumulti e infine morto dilaniato per l’esplosione di un ordigno indossato da un kamikaze non è meno importante per il mondo di un giovane laureato a pieni voti alla Sorbona.

Lo stesso giorno della strage parigina, venerdì 13 novembre, il quotidiano “la Repubblica” pubblicava un lungo pezzo dello scrittore David Grossman, nel quale si parlava della qualità umana del nemico.

Ciascuno di noi è frutto di un contesto, vi si legge: mettici in condizioni di estrema indigenza, sofferenza e guerra e diventeremo aggressivi e ostili; dacci invece benessere e buone prospettive di vita e di espressione, e saremo i tuoi migliori amici.

L’articolo, vera boccata di ossigeno in tanta stupidità profusa ogni ora a ogni angolo, proseguiva tracciando il profilo umano del “nemico”, e di quanto poco si sia portati a pensare che di colui che noi concepiamo come tale, non vediamo più lo spessore umano, ma solo un meschino appiattimento.

Questa semplice riflessione, riportata ai fatti di Parigi e a tutti i fatti in cui qualcuno sopraffà qualcun altro, spiega in poche immagini come si possa trasformarsi in mostri che spargono sangue ad ogni angolo in seguito a un forte condizionamento.

È sufficiente che si perda la visione complessa dell’essere umano.

È sufficiente che qualcuno o qualcosa ci porti all’atrofia interiore di ritenere gli altri come cose minime, appiattite, prive di spessore e complessità.

Di lì ad agire con tutta la crudeltà che la nostra natura animale sa sfoderare, è un passo breve.

Ma non è un fatto di barbarie, bensì di umanità obliata.

Così come la guerra, fessa e senza alcuna prospettiva, non è giusta risposta ad un’offesa, semmai è il rilancio che porterà a soffrire una nuova offesa, e così via, per sempre.

In tante parti del mondo infatti è così da tempi immemorabili. Anche se preferiamo non saperlo.

Vogliamo davvero che sia così anche per noi?

Sarebbe questa la nostra superiorità.

La nostra finezza e la nostra elevazione.

Allora il nemico non è fuori, da qualche parte, bensì ben acquattato dentro di noi.

gianCarlo onoratoMusicista, scrittore e pittore fuori dagli schemi, ex leader di Underground Life. Ha pubblicato i dischi: Il velluto interiore (1996), io sono l’angelo (1998), falene (2004), sangue bianco (2010, Premio Giacosa), ExLive (2014) con Cristiano Godano, quantum (2017), “quantum Edizione Extra” (2018), ha curato la co-direzione artistica del Tributo a Luigi Tenco come fiori in mare Vol. I (2001) e Vol. II, in “Sulle labbra di un altro” (2011), ed i libri: Filosofia dell’Aria (1988), L’Officina dei Gemiti (1992), L'ubbidiente giovinezza (1999), Il più dolce delitto (2007), “ex-semi di musica vivifica” (2013), La formazione dello scrittore” (2015). Ideatore del Seminario del Verbo Musicato, ha centinaia di concerti alle spalle e un disco, un tour e un nuovo romanzo nel prossimo futuro. giancarloonorato.it

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