ANNA JENCEK
13 (Moletto/Edel)
Voto: 6/7

Il sottotitolo è “13 tracce per cantare Neruda recitare Schwartz” e spiega l’operazione artistica della poliedrica allieva prediletta del compianto Herbert Pagani, ormai oltre la settantina (ma non li dimostra nemmeno da vicino vicino). Attrice, ballerina, cantante, Anna Jencek ha attraversato numerosi universi espressivi, assorbendone le più varie specificità, grazie a un talento capace di recepire stimoli di ogni tipo e di riproporli personalizzati e innovativi.
13_Copertina cdNel suo sesto album di una lunghissima carriera, punteggiata di collaborazioni e di interdisciplinarietà, Anna non ha perso il gusto per l’avanguardia soft e la sperimentazione pop che da qualche anno applica alla poesia: quella contemporanea di Marc de’ Pasquali (in Danze) e quella immortale di Cesare Pavese (in Terra rossa terra nera) e dei Sonetti del bardo inglese (in Jencek canta Shakespeare). Questa volta, prima di terminare la sua strada con Saffo e infine il maestro Pagani, lo fa attraverso le poesie del premio Nobel cileno e quelle dell’eclettico collezionista e storico dell’arte nato in Egitto, ma milanese di adozione ed ebreo di formazione.
13, quante sono le tracce, ciascuna intitolata con la relativa cifra d’ordine, nonché numero che nella kaballah ebraica indica l’amore, si distende tra poesie cantate e recitate, tra sonorizzazioni minimali di sola chitarra e tappeti sinfonici oppure elettronici, tra momenti decisamente “paganiani” come “9” oppure quasi spensierati come “10”, in un “pop lieder” (la definizione è della stessa protagonista) dal tono sospeso, che va dall’accettazione trasognata di una realtà di sangue e nervi, di soli che non conoscono eclissi, di amori abbaglianti, alla passione folle, simile a quella di André Breton per Elisa.
Il percorso di Anna è profondo e ricco, rende un incrocio di sensazioni e di emozioni incapace di ordinare razionalmente un mondo irrazionale, cerca intenzioni nella fantasia e nel ricordo e nel confronto, si sostanzia in realtà che non ha senso distinguere dall’apparenza. Ma un certo gusto old style, una sensazione di continua zoppia narrativa, un tono da foie inappagate, appesantiscono il disco, cui contribuiscono con sapienza anche gli ottimi Dario Toffolon (e la sua Orchestra Mozart) e Lino Capra Vaccina (e il suo Quartetto Ritmo).

Che dire? Basta citare la cura di oltre 250 cd compilation di new age, jazz, world e quant’altro? Bastano una ventina d’anni di direzione artistica dell’Etnofestival di San Marino? Bastano i dieci come direttore responsabile di Jazz Magazine, Acid Jazz, New Age Music & New Sounds, Etnica & World Music? Oppure, e magari meglio, è sufficiente informare che sono simpatico, tollerante, intelligente... Con quella punta di modestia, che non guasta mai.

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