Al di là delle montagne. C’è il futuro

Due uomini, una donna, un bambino e una traduttrice: la Cina tra il 1999 e il 2025.

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Al di là delle montagne
di Jia Zhang-Ke
con Zhao Tao, Yi Zhang, Jing Dong Liang, Zijian Dong, Sylvia Chang
Voto 8

Questo film sembra fatto di storia del cinema: nella prima parte, 1999, una zona mineraria della Cina, vediamo due uomini innamorati della stessa donna. Lei (ovviamente, ma non troppo, come nei racconti sentimentali…) sposa  quello “sbagliato”, l’imprenditore che si apre al nuovo capitalismo spregiudicato. Avrà un bambino che si chiamerà Dollar (!). L’altro innamorato, un minatore, se ne va, addolorato. È una Cina semplice (forse troppo), inquieta o, come si usa dire (da decenni ormai), “in mutazione”, che balla quadriglie in discoteca su un hit del Pet Shop Boys del 92, Go West (cover del singolo dei Village People del 79) quindi, nel film già vecchia di 7 anni. Occhio, il particolare è importante…
Nella seconda parte, 2014, vediamo la donna ormai sola aiutare con denaro per curarsi l’uomo che non sposò e incontrare in occasione di un funerale il bambino avuto dall’uomo da cui ora è separata. Nella biografia del regista si parla di amore per il Neorealismo italiano e per la Nouvelle Vague francese. Ci stanno ambedue.  Lo stile ora nervoso, ora sentimentale, discontinuo, passionale, a volte estatico le ricorda. La mutazione è avvenuta, svelta, strana, gli affetti e le persone muoiono e si succedono, il bambino è quasi un estraneo, la Cina è ora quella che noi interpretiamo nel ruolo/etichetta di nuova potenza globale. Ma non è né la donna ormai sola, né l’imprenditore troppo ricco, né il minatore troppo povero, né il bambino confuso. Eppure è tutto questo insieme. E non riusciamo ancora a inquadrarla.
Nella terza parte, 2025, il bambino è divenuto un ragazzo che vive in Australia col padre (passato da imprenditore troppo spregiudicato a ricercato o forse paranoico autoesiliato): padre che il ragazzo “non capisce, perché parla cinese”, e lui il cinese ormai l’ha dimenticato. La metafora è chiara e non è uno sfizio intellettuale: è tradotta in semplice fatica di convivere. In una professoressa di cinese più matura di lui il ragazzo scopre sia un’interprete tra generazioni che non si comprendono più, sia l’amore, anche fisico: ma tutto questo (è difficile non pensare a un complesso edipico grosso così: lei potrebbe avere l’età della madre…) ci rivela che il ricordo della madre persiste. E la madre, in una scena a dir poco memorabile per leggerezza,  ricongiunge il finale della terza parte con l’inizio del film, proprio sulle note di Go West, nella versione pop sintetico dei Pet Shop Boys la cui clip sfotteva le coreografie dittatoriali dell’Est in chiave postmoderna e il cui testo invitava ad andare a Ovest dove i cieli erano blu e  l’amore, il destino e i desideri si univano. I Pet Shop Boys la cantavano vestiti come i Devo in piena epoca Grunge. Ironico o tragico?  A questo punto fai il confronto con i balletti maoisti sull’avvenire e ti rendi conto di aver assistito al miracolo di un film di grande sottigliezza che cresce dentro mentre lo guardi e continua quando esci. Alla stessa velocità della Cina. La biografia del regista dice anche che da tempo collabora con Takeshi Kitano, il genio giapponese. Questa terza parte quasi inclassificabile non sapremmo come inquadrarla se non come “ispirata” e conferma che il cinema orientale nel futuro si spinge davvero.

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