Terry Lee Hale
Bound, Chained, Fettered (Glitterhouse)
Voto: 8
Oggi lo chiamano “americana”. Si tratta del nuovo country, fino a pochi anni fa preceduto dall’aggettivo alternative o più semplicemente alt, che prese nei 90 il posto del vecchio country-rock anni 70 dei Poco e dei Flying Burrito Brothers, a sua volta preceduto la decade avanti dal folk-rock dei Byrds e dei Buffalo Springfield e seguito la successiva dal roots rock dei Beat Farmers e dei Long Riders. Insomma una questione di definizioni per un genere che continua nel tempo a essere ritenuto sempre più identitario per gli statunitensi bianchi ma per nulla wasp, e non solo del sud del Paese.
Infatti è sempre stata la California a sfornare queste band, con il corollario di Seattle, sempre a ovest ma molto più a nord, anche se of course il genere si è diramato per tutti gli States. A cominciare dal Texas, da dove viene Terry Lee Hale, uno dei paladini dell’ondata, giunto con questo Bound, Chained, Fettered al suo 14esimo album da solista.
Girovago per vocazione, è stato uno dei “padrini” della scena di Seattle negli anni 80 e vive in Francia, tra Parigi e Marsiglia, ormai dal 2004. Il suo stile malinconico e sobrio, elegante e diretto, diventa ancora più “intimo e impegnato sul piano emozionale rispetto al precedente The Long Draw: là ero uno spettatore, qui sono il personaggio principale”, come afferma lo stesso Hale.
Nove brani chitarristici meditativi, ballate interiori e sognanti, registrate quasi live in studio a Forlì dal produttore e chitarrista Antonio Gramentieri, già con Hugo Race e Dan Stuart, big del genere. Un album che vede intrecciarsi leggere percussioni e spaziose aperture di synth e Hammond, sottili mix di piano e fiati “bassi”, oltre naturalmente alle volanti tessiture di corde, che sostengono la spinta della voce e dei testi.
E i testi di Hale sono sempre a fuoco sulla realtà del nostro vivere confuso e incerto in un XXI secolo difficile, in cui la malinconia e la solitudine incrociano la noia e il ricordo, in cui la gioia è dell’attimo e l’amarezza del profondo: parlano a chi ascolta, tesi come cavi di alta tensione e fluenti nel sedurne la mente. La voce emozionante ed evocativa conduce nella quasi lettura poetica dell’iniziale title-track, nel blues waitsiano di “The Lowdown”, nello struggente equilibrio di “Acorns” e, a seguire, in tutte le altre, spoglie ed eleganti canzoni di austera semplicità e di indolente accettazione.
La loro forza, strumentazione per lo più sommessa e voce sempre intensa, è quella di riportarci tutti a qualcosa di personale: ci mettono di fronte alla nostra capacità, o incapacità, di essere autentici, di prendere in mano il nostro status e di disegnarlo con coraggio.