Intervista al cantautore Federico Marchioro: fra storia e realtà

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Federico Marchioro è un quarantenne cantautore veneto totalmente opposto a ciò che si intende con il termine “cantante”. Ha una poetica ben delineata ed è molto attento alla storia, sua passione sin dalla tenera età, e ai temi sociali, che racconta attraverso le canzoni.

Appunti di inizio secolo è il suo album, prodotto da Stefano Florio per l’etichetta Buenaonda, lanciato dal singolo Il lungo addio. Nelle prossime righe, ci racconta qualcosa di più circa il suo punto di vista sulla musica e sulla realtà che ci circonda.

Come ti sei avvicinato alla musica?

Mi sono avvicinato alla musica in maniera assolutamente casuale e non preparata, i miei genitori si occupavano di altro e non ho studiato al conservatorio e in nessun istituto musicale. Come tanti miei coetanei vengo dalla parrocchia sottocasa. Fin da piccolo, ho iniziato a frequentare i gruppi giovanili dell’Azione Cattolica dove, assieme ai miei amici d’infanzia, ho imparato i primi accordi con la chitarra verso i 13-14 anni, grazie alla lungimiranza del sacerdote dell’oratorio che ci ha impartito alcune lezioni per apprendere le basi dello strumento. Mi ricordo che le prime canzoni che ho iniziato a “strimpellare” sono state le classiche canzoni da cantare sotto le stelle davanti al fuoco nelle sere dei campi scuola in montagna; canzoni come Acqua azzurra, acqua chiara, Il pescatore di De Andrè, La canzone del sole, Alla fiera dell’est di Branduardi. In quell’ambiente così fecondo dal punto di vista della conoscenza e della libertà creativa, ho imparato, se così si può dire, la musica dei cantautori, di De Gregori, di De Andrè e Guccini. Poi l’idea, la scintilla di scrivere le prime canzoni è arrivata nell’estate del 1994, tornato a casa da un campo scuola ad Assisi, una straordinaria ed intensa esperienza umana e spirituale, una sorta di viaggio “on the road”, compiuto a 18 anni, assieme ai miei amici. Da quell’esperienza è partito tutto. Naturalmente quelle canzoni erano le prime cose “adolescenziali” che scrivevo, caratterizzate da un linguaggio “acerbo” e tutto da rifinire, anche se, dal punto di vista dei contenuti, riflettevano già una mia attenzione per argomenti e tematiche delle quali avrei scritto anche negli anni successivi, con una maturità e consapevolezza maggiore.

C’è un artista che ti ha ispirato più di altri nella scrittura?

Con la necessaria premessa che un artista, un autore, cantautore produce ed elabora un qualcosa tutto suo e completamente originale, sicuramente non nascondo di provenire dal mondo dei cantautori degli anni ’70. De Gregori, Guccini e De Andrè sono gli autori che nel corso degli anni ho ascoltato di più e ascolto tutt’oggi. Riguardo proprio a De Gregori, c’è un piccolo aneddoto che mi piace ricordare e cioè che fu mio padre, in maniera assolutamente inaspettata, un sabato pomeriggio d’inizio giugno, a farmi conoscere musicalmente il cantautore romano, regalandomi il disco Miramare 19.04.89; avevo 12 anni, facevo ancora le scuole medie e, prima di quel sabato pomeriggio e di quel regalo, non sapevo nemmeno chi fosse De Gregori. Da quel giorno, canzone dopo canzone, disco dopo disco, ho cominciato a capire ed apprezzare il suo lavoro d’artista, così importante per la mia formazione artistica.

Il tuo album si intitola Appunti di inizio secolo. Come mai questo titolo?

Attraverso le canzoni di questo disco, come brevi fotogrammi, ho cercato di raccontare un tramonto. Il momento in cui hai la percezione che un qualcosa sta per finire ma non è ancora finito e tutto quello che arriverà dopo non è ancora arrivato. Un tramonto quale atto finale di una fase storica per questo paese e, al tempo stesso, momento della mia vita segnato dal passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Quello che stiamo vivendo ora, dal punto di vista politico e culturale, è proprio un momento di transizione tra quello che è stato e ha rappresentato il ‘900 con le sue ideologie, le sue certezze, i suoi grandi valori ed ideali e la confusione e il disordine di questo nuovo millennio appena cominciato, così carico d’incognite, d’interrogativi e domande senza risposta. Quando ho pensato a quale titolo dare all’album, avevo diverse soluzioni, tra cui “versi d’inizio secolo” oppure “pensieri e riflessioni d’inizio secolo”, ma poi ho pensato che se da una parte, parole come “versi” e “pensieri” sono patrimonio di poeti e filosofi, lo scrivere appunti è un fatto del nostro vivere quotidiano, appannaggio per chiunque abbia voglia di fissare su di un pezzo di carta le proprie sensazioni e stati d’animo, non un fatto per pochi eletti.

Quanto è difficile emergere oggi nella musica?

Al giorno d’oggi, riuscire a fare musica, dal punto di vista tecnico, è sicuramente molto più facile rispetto a qualche decina di anni fa. Produrre un disco, grazie allo straordinario apporto delle macchine digitali, è divenuto un fato quasi “casalingo” e alla portata di chiunque abbia uno’ di dimestichezza con la modernità dei computer. Il vero problema è quello di saper produrre musica di qualità e soprattutto di riuscire a farla emergere e conoscere per il vero ed effettivo valore artistico che merita, nella “Babele” dei centinaia di dischi che vengono prodotti annualmente. Un ulteriore ed innegabile difficoltà, soprattutto per tutti quegli artisti che come me sono “di nicchia”, è rappresentata dal riuscire a trovare spazi di espressione in una realtà musicale dominata dai talent show e dalla televisione. Non siamo più negli anni ’70 dove un certo tipo di discorso musicale “impegnato”, a me così vicino, andava sicuramente per la maggiore, rispetto al presente. Per il mio mondo artistico non esistono scorciatoie e ricette magiche, l’unica soluzione è quella di un lungo e paziente lavorio dal basso, di una costante ricerca del proprio pubblico senza quelle grandi sovrastrutture rappresentate appunto dalla televisione e dai talent show, espressione di una musica, a mio parere, “usa e getta”.

Cosa vorresti trasmettere con la tua musica?

Attraverso la mia musica e le mie canzoni cerco soprattutto di raccontare me stesso e il mio vivere quotidiano, nella maniera più libera possibile e senza alcun tipo di filtro e mediazione. Credo sia questa, la libertà di raccontare in maniera quasi “anarchica”, una delle cose più belle e gratificanti concesse a chi possiede il dono di comunicare attraverso la musica e l’arte in generale. Quando scrivo una canzone mi piace pensare a me come a un bambino che si diverte a giocare con i mattoncini della Lego. Per me la musica è soprattutto divertimento e quando senti, con quello che hai scritto in una canzone, di essere riuscito a esprimere quello che effettivamente ti passava per la testa in quel preciso attimo e di avergli conferito una cosiddetta “valenza estetica”, la sensazione di gioia e appagamento è immensa.

C’è una persona a cui devi dire grazie in modo particolare per il percorso che hai fatto?

La persona che mi sento di ringraziare per quello che ho fatto finora è sicuramente mio padre. E’ sempre stato uno spettatore “discreto” ma presente e anche quando non era d’accordo con quello che stavo facendo non mi ha mai negato la libertà di poter fare le mie scelte. Nell’ultimo periodo prima che se ne andasse, ero contento perché mi rendevo conto che, pur nella sua durezza e timidezza di carattere, aveva compreso quanto fosse importante per me, scrivere e suonare. Tutto questo disco è dedicato a lui, alla sua figura e in particolare due canzoni: Beati i puri di cuore e Lettera contemporanea.

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