Hernandez & Sampedro, italians do it better

Procede a gonfie vele il tour nazionale del duo romagnolo, supportato da tre ottimi compagni di strada, per promuovere il recentissimo e coraggioso Dichotomy. La data all’ormai storico Sacco & Vanzetti di Concordia Sagittaria (Venezia) ha confermato i progressi di un progetto musicale che trova nella dimensione live la condizione ideale per evidenziare talento compositivo e versatilità esecutiva tra intimi passaggi acustici e torride esplosioni elettriche

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Li avevamo lasciati al tramonto lungo un’isolata strada di periferia. Abbandonati in mezzo al nulla, magari buttati giù da un pick up, a caccia di un improbabile passaggio mentre quella striscia di asfalto continuava a perdersi in lontananza. Una chitarra in due e, solo apparentemente, indecisi su quale direzione prendere. Ma convinti di poter trovare (da qualche parte ci sarà pure, inguaribili sognatori…) una parvenza di “isola felice” alla quale approdare.
Hernandez & Sampedro sono fatti così e, proprio per questo motivo, sanno farsi voler bene sia quando si destreggiano su un palco (in coppia o in formato full band, in un’intima versione acustica o in una vigorosa veste elettrica), sia, e forse ancor di più, quando ne discendono quasi sorpresi per l’attenzione e l’affetto nei loro confronti che li rendono una delle realtà italiane capaci di bruciare (onestamente e limpidamente, c’è da dire) le tappe nel più breve tempo possibile e, grazie anche alla singolare versatilità espressiva, di garantirsi più date in assoluto.
Luca Damassa è quello con il ricciolo sornione e lo sguardo intrigante, quello che somiglia in maniera inquietante al comico Alessandro Siani ma, invece di indurre alla risata, fa piuttosto sognare la platea femminile; Mauro Giorgi, invece, è quello che non somiglia proprio a nessuno, ma che emerge alla distanza e, quando imbraccia la chitarra elettrica con estro virtuoso (si tratti di una Gibson dorata, si tratti di un’ancor più affascinante Gretsch), determina il giro di boa del concerto, portandolo talvolta a autentiche esplosioni di colori. Il primo, immediato e intrigante, è quello che più fa pensare al “flower power” e a una spiaggia infuocata; il secondo, invece, è quello che le onde le solca per davvero in equilibrio su una tavola o pagaiando come un ossesso.
Con il fortunato e sorprendente Happy Island, dunque, li avevamo conosciuti come fossero stati più gli adepti di una spensierata, ma salutista, tribù romagnola in stile “no shoes, no shirts, no problem” alla Kenny Chesney, piuttosto che di branchi di bambocci condizionabili psicologicamente ed elasticissimi chimicamente come i seguaci degli altrettanto balneari e altrettanto sbandati (ma troppo spesso strafatti…) fratelli Wilson. Una coppia che, fin da allora, meritava di essere accompagnata con fiducia e simpatia nel suo strampalato viaggio. Magari caricandola subito a bordo del nostro mezzo e scaraventando nei campi circostanti qualche presunto r’n’r hero ormai armato più di cerone che di plettro, per toccare insieme le dieci tappe di un album che i due pard avevano confezionato in maniera snella e calda quanto le loro sonorità.
Più che Don Chisciotte e Sancio Panza (nonostante la solita lotta contro i mulini a vento…), H&S sembravano tuttavia una sorta di Danny & Dusty (chi ricorda la folle accoppiata Pasley tra Steve Wynn dei Dream Syndicate e Dan Stuart dei Green on Red?) che, a tacos e tequila, preferivano di gran lunga squacquerone e Sangiovese.Hernandez & Sampedro, benché il loro nome d’arte faccia pensare a distese di sombreri inclinati sul muro esterno ombreggiato di una posada in piena ora della siesta e a un’innata propensione all’ozio, sono invece molto più vitali e coraggiosi di quanto si possa pensare. Per questa seconda uscita discografica, sponsorizzata con acume dalla solita Route 61, hanno evitato di seguire banalmente la corrente e di ripetersi stancamente con una Happy Island “take two”. Invece, seguendo una tattica solo apparentemente suicida, si sono inventati una folle dicotomia (Dichotomy, appunto…) che, come insegna Wikipedia, trattasi null’altro che della divisione di un’entità in due parti che non necessariamente si escludono dualisticamente a vicenda ma che, altresì, possono anche risultare complementari.
In sostanza, i Nostri trattano il cd come si trattasse di un album classico in vinile, caratterizzato da una facciata A interamente acustica e una facciata B prevalentemente elettrica. Elementare, Watson! Scelta interessante ma forse, inizialmente, impopolare, soprattutto alle orecchie di una platea poco abituata alle esplorazioni e alle sorprese. Ma, alla lunga, suggestiva e versatile per regalare ai Hernie & Sampy un ulteriore passo avanti sulla strada della piena maturazione e dell’originalità, senza eccessivi abbracci ruffiani all’artista ispiratore di turno e senza “voler piacere” a ogni costo. Il loro, ormai, è un cantautorato urbano e metropolitano assolutamente originale che nulla ha a che vedere con l’ormai lontano e ombroso passato tra le fila degli Stoned Machine. E che già si evolve dal precedente lavoro anche attraverso un sobrio quanto maturo packaging cartonato.Rescue me, addirittura, esordisce con una sorta di (volutissimo) disturbo sonoro, come se fosse stata collocata la puntina di un giradischi e si sviluppa attraverso una sorta di cantautorato espressivamente e umanamente “pulito” (mai sopportati gli artisti che cercano troppo facili consensi attraverso i loro “pubblici” stravizi e che rifilano vaccate a destra e a manca con la scusa di dover raccattare i soldi per coltivarli in piena serenità finanziaria…) nell’accezione più encomiabile e onesta del termine. Che, poi, acustici per modo di dire visto che le chitarre dei due non sono per nulla pizzicate e le sonorità sono quasi sempre piuttosto corpose e mai minimali.
Già per la seguente Rainbow, a Concordia Sagittartia scelta per aprire la serata quale ottimale biglietto da visita, salta fuori il piano di Daniel zur Nieden e certe armonie alla Simon & Garfunkel subito scompaiono, regalando toni più leggiadri che non avrebbero disdegnato, fermo restando un tocco alla Michel Stipe pre valvoline bruciate, neppure illustri ma ben poco ricordati antesignani come Scott McKenzie o Harry Nilsson.Un senso di West Coast traspare sempre un pochino, anche se Get up from your grave sembra essere uscita dalla produzione più disimpegnata di Billy Bragg e Time to go, supportata anche dalla pedal steel di Federico Baldassarri, offre persino una sfumatura caraibica trapiantata a Nashville. Everywhere in the world regala l’apporto di Mary Cutrufello e il supporto vocale di Mirko “Gomez” Pacilio per un brano che deve molto a CSN, ma senza rubacchiare alcunché. Degna parentesi, grazie anche allo struggente violino di Nicola Nieddu che riporta alle collaborazioni di David Lindley con “broche” Jackson Browne, per “”elettrificare” la sezione finale che fa da ponte con l’ipotetico secondo lato del vinile anche con imprevedibili gorgheggi di soul sporco che si palleggiano tra Joe Cocker buonanima e Andrew Strong desaparecido.
La side B, archiviato il solito disturbo da capovolgimento vinilitico, accelera subito la marcia e per Dangerous road si sporca tanto di Black Crowes quanto, sorpresa sorpresona, di Jesus and Mary Chain finiti per caso nel Tennessee per una imprevedibile e rilassata versione di Ghost riders in the sky. Hate and love (niente a che vedere con i Rocking Chairs e tantomeno con Jack Savoretti ma, più facilmente, con le manone sante di Robert Mitchum nelle vesti del “predicatore” affrescato in La morte scorre sul fiume) porta l’attenzione sul pregevole lavoro della sezione ritmica composta dalla coppia Alessandro “Caballero” Carrozzo (basso) e Paolo “Molinar” Rubboli (percussioni). Un duo di musicisti che si esaltano anche nella successiva Morricone, godibile e drammatico strumentale western style targato Giorgi/Sampedro. Il polistrumentista Giuliano “Juanito” Guerrini, dal canto suo, viene confermato alla produzione e agli arrangiamenti, insieme agli stessi H&S che si suddividono in maniera piuttosto equilibrata onori e oneri della composizione musicale e della stesura dei testi. Rise up, potenziale singolo del lavoro, nonché brano dalle evidenti potenzialità live, rilancia anche gli assoli alla sei corde del talentuoso Sampedro e riporta a certe sonorità tra Hoodoo Gurus e Naked Pray con sorsi sparsi dei mai troppo rimpianti Wayward Souls. Si inizia a galoppare davvero e On the verge of insanity archivia, infine, il lavoro intero rimanendo sulle stesse corde ma, al tempo stesso, aprendo le porte a un nuovo bacino di prospettive sulle quali H&S stanno già lavorando. Tempo al tempo, però: questi sono solo giorni di Dichotomy! Per il resto si può tranquillamente attendere con fiducia.
Tutte qualità e potenzialità ampiamente valorizzate, insieme a talento compositivo e versatilità esecutiva tra intimi passaggi acustici e torride esplosioni elettriche, in occasione del live ospitato nell’angolo magico dell’ormai storico e imprescindibile Sacco & Vanzetti di Concordia Sagittaria: prossimi arrivi, entrambi in ottobre, l’altrettanto italiano Edward Abbiati dei Lowlands in coppia con l’ex Giant Sand Chris Cacavas e poi il maestro Michele Gazich con il suo violino. In terra veneta H&S sono stati ampiamente ed eccellentemente supportati da Jack “La Bamba” Sangiorgi al basso (per lui la seconda uscita ufficiale), Cristiano “Buddista” Costa alle tastiere e il coreografico e giovanissimo Paolo Molinar Rubboli, il “nerd delle bacchette”, alla batteria trasparente. Il risultato è stato da leccarsi i baffi, soprattutto in termini di varietà e completezza della serata, insieme all’ormai rodata capacità di coinvolgere il pubblico senza mezzucci o pietose richieste di complicità forzata. Una scaletta inizialmente autografa e solo nel finale, fatto salve un paio di brevissime citazioni tra Dire Straits e Patti Smith, un paio di aperture a repertori altrui con una Cortez the killer di livello eccelso (non eseguita dallo stesso Neil Young, a poche decine di chilometri, nel corso dell’esibizione estiva ha ampiamente ricompensato i presenti a entrambe le serate, compreso lo stesso Sampedro, protagonista di alcuni passaggi chitarristici memorabili, ribaditi anche in occasione dell’altrettanto torrenziale versione della dylaniana All along the watchtower) e Society di Eddie Vedder.
Niente da aggiungere: oggi come oggi, in Italia, Hernandez & Sampedro “asfaltano” gran parte della concorrenza di qualità. Figuriamoci i tanto apprezzati finti rockers nostrani da corridoio di centro commerciale….
Vogliate gradire!
La scaletta del concerto:
1       Rainbow
2       Get up from your grave
3       Time to go
4       Kinky queen
5       Everywhere in the world
6       Dangerous road
7       Cold cold cold in this town
8       Hate and love
9       Don’t give up on your dreams
10     Cortez the killer (Neil Young)
11     The sky the water and me
12     Rise up
13     On the verge of insanity
14     Happy island
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15     Youngstown (Bruce Springsteen)
16     Society (Eddie Vedder)
17     All along the watchtower (Bob Dylan)
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18     The river (Bruce Springsteen)

Luca Hernandez. Foto Enzo Mussin
Luca Hernandez. Foto Enzo Mussin
Mauro Sampedro. Foto Enzo Mussin
Mauro Sampedro. Foto Enzo Mussin

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