In principio furono i Rocking Chairs. E quella fu cosa buona. Anzi, buonissima. Forse, addirittura, la miglior espressione in assoluto di rock angloamericano originale e autografa mai prodotta in Italia. Anzi, senza forse. E, c’è da aggiungere, grazie a loro furono qualità ed estro espresse con incredibile passione e profondo talento attraverso quattro album pubblicati in altrettante annate a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, finendo per trovare particolare apprezzamento anche negli States. In principio, dunque, furono gli ormai leggendari Rocking Chairs, passati proprio due anni fa attraverso una temporanea reunion con i compagni di strada dell’epoca con serate rigorosamente “sold out” e meritate genuflessioni collettive nei teatri di mezza penisola.
Poi, qualche anno più tardi, fu la Banda. E quella, per quasi due lustri e mezzo, fu soprattutto cosa mostruosamente gettonata e, di riflesso, assai gratificante. Anzi, gettonatissima e gratificantissima. Tra stadi, palasport, passaggi televisivi, paccate di fan osannanti e milioni di copie vendute con i Nostri, sempre ben radicati in jeans e stivali texani, a presidiare il palco dietro le spalle di Luciano Ligabue probabilmente, e non a caso, nel periodo più ispirato ed esportabile della sua carriera. E così arrivarono altri sei album, tra studio e live, oltre a estemporanee produzioni tra colonne sonore e benefit vari, condite da ben undici tour con il rocker di Correggio, compresi i tre “richiami” bagnati da folle oceaniche a Campovolo 2005, 2011 e 2015.
Ora, invece, sono “soltanto” Mel Previte & the Gangsters of Love. “Soltanto”, ovviamente, si fa per dire. Perché, finalmente, dopo anni di incessante girovagare tra mille progetti collaterali individuali e di gruppo, i tre amiconi sono approdati finalmente in sala d’incisione per divertirsi e divertire. Il “padrone di casa”, ovviamente, è Mel Previte, uno dei personaggi più atipici della scena musicale italiana. Un virtuoso/misurato della sei corde che non ha mai “mollato” il posto in banca neppure nei momenti di maggior gloria artistica, affrontata però in maturo e responsabile stato di “aspettativa”. Uno che si porta dietro un nome che pare uscito dalla formazione base dei Four Season o di qualche gruppo doo-wop anni Sessanta costituito da “paisà” di seconda generazione del Jersey; uno che dietro uno sguardo che pare volerti incenerire nasconde, invece, una diplomazia e una pacatezza da filosofo; uno che, sotto quel look ricercato con gli occhiali dalla montatura spessa alla Buddy Holly, le camice sgargianti e il gilet scuro nasconde invece la carica di un rocker convinto dallo stiletto facile che ha barattato il “chiodo” ormai usurato con una collezione di Borsalino.
I ben poco minacciosi e (quando vogliono) rumorosi assai Gangsters of Love, pare scontato dirlo, sono invece i suoi pard di sempre ben radicati sull’asse Modena-Reggio Emilia: Antonio “Rigo” Righetti e Robby Pellati, la sezione ritmica che da sempre pesta, tocca e affonda, aggiungendo ora vigore e ora (ma proprio di rado…) languidezza alle imprese di Mel. Gli inseparabili tre, uniti da una carriera quasi parallela, tra clamorosi successi e bruschi rientri nei ranghi, hanno il grave difetto di divertirsi senza mai speculare troppo. Persino al vertice della notorietà giravano i club quasi in incognito e si inventavano scalette e svisate che il pubblico, in gran parte scarsamente consapevole del profilo dei soggetti in questione, dimostrava di gradire con affetto.
E, questa più che mai, è ancora cosa buona. Visto che questo stesso album, privo di composizioni autografe o di proficue piaggerie, si rivela un autentico e scanzonato tributo alle (loro) origini. Utile ai candidi principianti per capire da dove iniziare un’auspicabile esplorazione a ritroso e prezioso anche per gli indefessi cultori a caccia di un ripasso Memphis style. Rigo, con il suo Jazz Bass bianco del 1971 (da lui ribattezzato “The ghost of saturday night”, comprato a San Francisco qualche decennio fa e onorato persino da una pagina personale su Facebook https://www.facebook.com/ilbassobiancodiRigo/) puntato come una balestra, è solo all’apparenza la sezione muscolare del terzetto, mentre tra un libro, una docenza e un progetto personale con tanto di album autografi, nei quali non disdegna neppure la posizione dietro al microfono, è un altro ricercatore del rock che ha anche qualcosa “da dire” e non solo “da suonare”. Robby, infine, è quello che picchia dietro a tutti gli altri, per ovvi motivi si nota visivamente di meno ma che, oggi come allora, è quello che più attira le ragazze “toccate” anche dal pulsare del suo drumming vigoroso. E, magari, anche le mamme.
Previte, polistrumentista (che, tuttavia, in questo caso rinuncia al curioso mini sax e all’armonica, dedicandosi solo a voce e chitarra) e produttore discografico influenzato non solo dal r’n’r, ma anche e soprattutto da blues e jazz, mi espresse qualche anno fa (nel suo amichevole contributo a un mio volume dedicato a Bruce Springsteen nel quale analizzava il suo ruolo con la Telly a tracolla) una considerazione che diventa illuminante proprio in questo caso: “Da tempo penso che alcuni dei chitarristi più importanti della storia siano, o siano stati, anche cantanti: Bruce ne è un perfetto esempio – sosteneva – Senza l’assillo di dover riempire ogni spazio di assoli e valanghe di note, il cantante usa la chitarra per ‘ottimizzare’ la canzone e ritaglia per lo strumento momenti più dosati e sempre funzionali per il risultato finale!”. Esattamente la strada scelta da Mel in questo lavoro. E, per la cronaca, i Rocking Chairs erano stati in assoluto la prima band italiana a registrare un brano di Springsteen stesso (l’allora inedito Restless nights, inserito nell’album di debutto New Egypt del 1986), nonché l’unica realtà nostrana inserita con lo stesso brano anche nel primo tributo mondiale all’artista di Freehold (il doppio One step up – Two steps back: The songs of B.S. del 1997).
Eccoci dunque a parlare finalmente di On/Off, questo esordio ufficiale per MP & the GoL che, ovviamente, in realtà esordio non è manco per sbaglio. Trent’anni in sala di registrazione, primavera più, primavera meno, rendono superflua qualsiasi introduzione in merito e consentono di passare direttamente ai contenuti, registrati praticamente in presa diretta come si trattasse di un live vero e proprio (“… rigorosamente e impietosamente dal vivo – precisano loro – Quello che sentite è veramente quello che è successo”). Proprio come si faceva un tempo.
Da lustri, ormai, side project alternativo e piacevole divertissement dei Nostri soprattutto nei periodi di “vacanza contrattuale”, l’anonima assassina del cuore pubblicherà ufficialmente l’album il 28 ottobre prossimo, mentre la presentazione avverrà il giorno successivo a Cantù sul palco dello storico All’Una E Trentacinque Circa.
Ovviamente, di riletture scolastiche neppure l’ombra. Né era lecito aspettarsi banalità simili da Mel e soci che riarrangiano meticolosamente i brani, portandoli in territori originali e più consoni ai loro obiettivi. Trainata da un packaging sobrio ma accattivante, caratterizzato dai tre immortalati sul retro di copertina e poi suddivisi anche in tre singoli quadretti all’interno, la set list si apre con una “voce fuori campo” che, con tanto di eco finale, introduce MP & the GoL subito impegnati a straziare il Peter Gunn Theme (parto del compositore Henry Mancini, già “papà” della Pantera Rosa e Moon river, ma più nota come cavallo di battaglia dei Blues Brothers) in una sorta di roccioso nu-rockabilly con accenni di chitarra western che deve qualcosa anche a Link Wray e alla antica amicizia dei Chairs con Robert Gordon. E, ai più smaliziati, non sfuggirà neppure il riff di Voodoo Chile che consiglierà, anche per i brani futuri, di prestare la massima attenzione a qualche piccolo passaggio non dichiarato….
La successiva When will I be loved di Phil Everly, il minore dei due fratelli che influenzarono praticamente tutti da metà anni Cinquanta in poi, ci fa scoprire la voce di Previte che, se fisicamente ricorda alquanto Claudio “Greg” Gregori, qui si mantiene in ambiti più classici e senza velleità da crooner di ambito jive. Ovvio che la chitarra sia sempre in primo piano e, di base, rimane una crudezza che emerge ancor di più in una Not fade away che, dimenticando per un po’ Buddy Holly, sembra più uscita dal territorio di Frank Marino con i suoi Mahogany Rush impegnati a omaggiare Bo Diddley e la sua Gretsch “Twang Machine” (e, anche qui, salta fuori un richiamo ad Apache degli Shadows in versione morriconiana) prima delle ovazioni finali degli ospiti in studio.
Suspicious minds, tra le loro mani, perde in epicità presleyana e si sposta verso orizzonti ruvidamente rallentati nei quali compare ai cori anche la voce di Rigo; Maybellene, invece, lascia per un momento a Saint Louis il burbero Chuck Berry e a Chicago la Chess Records per tenersi a metà strada tra Johnny Cash e Simon & Garfunkel con solito “ghost riff” questa dedicato a That’s all right (mama) tra Elvis e Arthur Crudup con buona pace di Alan Freed. Runaway, passaggio più lungo del lavoro con i suoi otto minuti scarsi, diventa un irriconoscibile bluesaccio che Del Shennon non aveva previsto ed è una delle sorprese più gradevoli in assoluto con il suo altalenare trotto-galoppo-trotto e un Previte a sbizzarrirsi con reciproco divertimento e qualche nuova sfumatura hendrixiana. (Sittin’on) The dock of the bay porta al giro di boa e lascia a Righetti non solo l’attacco di basso, ma anche la responsabilità vocale per una versione tutto sommato funky dell’hit postumo di Otis Redding che la chitarra velocizza in maniera progressivamente brillante e cattiva. Rigo se la cava con mestiere e rende subito la palla al capitano per una Be bop a lula che pare uscita da un frontale senza casco tra lo sfigatissimo ma immenso Gene Vincent e il coreografico ma trascurabile Billy Idol con i Dr. Feelgood a litigare con Pretty Things e Small Faces per un angolo prove in una lurida cantina con tanto di ovazioni finali del pubblico presente in sala.
Wipe Out, qui citata in copertina senza spazio tra i due termini, ci scaraventa insieme ai Surfaris nel mondo delle tavole californiane da flutti schiumosi, ma ben lontani dai fratelli Wilson, per uno strumentale (graditissimo anche dalla claque di casa) che vola via come un gabbiano borchiato, è proprio il caso di dirlo, in picchiata sulle “onde”. That’s all right (mama), questa volta ufficialmente accreditata, abbandona Memphis e la Sun Records per trovare piuttosto una spruzzata black & funk con Pellati a regalarsi una parentesi tutta sua in un finale che chiude in un cassetto il crudo e acustico folk blues delle origini. Anche I’m talking about you deve poco allo stile del burbero pioniere Chuck Berry e decolla subito in maniera vertiginosa, legata alle svisate della Gibson 335 del primus inter pares che si sfoga, ben assecondato, senza accontentarsi delle atmosfere di maggior derivazione blues dei primi “Glimmer Twins”, ma anzi affondando il plettro anche in certe penombre come se Free e Ten Years After fossero pronti per sfondare la porta di casa di Alexis Korner.
In the middle of it all rende onore anche al carneade Arthur Alexander (tra gli ispiratori di Beatles e Stones, mica pizza e fichi) e, con voce sofferta e ritmo ammorbidito, penetra in maniera ruvida ma efficace nell’armadio dei ricordi soul e r’n’b con una versione che potrebbe giocare a ping pong con quella torridamente spaccacuori della divina Irma Thomas. Uno dei passaggi più azzeccati e istruttivi del lavoro, grazie alla sua lunghezza, capace di dilatarsi e passare da atmosfere crepuscolari a penombre virtuosistiche, prima di riprendere a “gran tiro” con Come on (al solito Chuck Berry, ormai, fischieranno le orecchie…) che diventa un gustoso garage’n’roll che fa dell’incalzante ripetitività la sua arma migliore. Hound dog della premiata ditta Leiber & Stoller è forse l’episodio che più si avvicina alle versioni classiche e, prevedo, sarà una tipica proposta da bis con il pubblico in piedi a ballare e Previte a sputare fuori assoli vertiginosi con Rigo e Pellati a ricavarsi a suon di gomitate spazi plaeali tra reprise e finti saluti.
Trattasi del commiato? Manco per sogno, visto che arriva infine (pescata dal repertorio degli stessi L&S con il supporto creativo di Cynthia Weil e Barry Mann) anche la bonus track d’ordinanza. Una On Broadway che, brano più corto del cd, diventa tenebrosa e rallentata sia rispetto la versione irraggiungibile e quasi gospel dei Drifters che quella da musical pop di George Benson. Un saluto brevissimo, solo 2’33”, che sfuma con leggerezza questo piccolo “Bignami del r’n’r” che a qualcuno offrirà l’occasione per un gustoso ripasso (condito, magari, da uno scherzoso “trivial” senza prima guardare i crediti e andando, altresì, a caccia di influenze e citazioni fantasma) mentre ad altri, magari provenienti da altri lidi e attratti soprattutto dal blasone dei Nostri, la possibilità di allargare le vedute non sempre larghissime procedendo a ritroso di qualche decennio.
Del resto, lo dicono anche i tre emiliani, “il r’n’r non ha volume: o è acceso o è spento”. On oppure Off, appunto.
Vogliate gradire!