Tutte le volte che (non) ho conosciuto Dario Fo

Un contro-ricordo

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Milano non ama Dario Fo. È sufficiente scorrere in rete i commenti agli articoli che riguardano la sua morte. Haters seriali che colpiscono indifferentemente sia lui come – tre anni fa – la moglie Franca. Commenti acidi, ignoranti, rancorosi, solo perché la coppia non ha mai fatto mistero delle proprie simpatie politiche verso la sinistra a volte più estrema. Non un ricordo o un segno di ciò che l’arte e la città hanno guadagnato dai due attori, non un riconoscimento. E non solo da parte dei soliti commentatori biliosi  e astiosi che  seduti davanti al  computer – novella bottiglia molotov sdoganata sia a destra che a sinistra – sparano a zero su tutto e tutti.
Il fatto che Milano non sia mai stata in grado di offrire alla coppia lo spazio della Palazzina Liberty – da loro restaurata, ma solo la violenza fascista (di ispirazione istituzionale) verso Franca, è una vergogna enorme. Quasi quanto l’indifferenza riservata a Fo dopo il premio Nobel per la letteratura (in compagnia di altri pochi italiani: Giosuè Carducci, Grazia Deledda, Luigi Pirandello, Salvatore Quasimodo, Eugenio Montale).
Giunte comunali pronte a intitolare strade, piazze o giardini a Gino Bramieri e Mike Bongiorno, e distribuire Ambrogini senza criterio, non sono state in grado di dare un segno seppur minimo a una coppia che ha fatto dell’impegno politico verso i più deboli e indifesi il filo rosso di un’intera carriera, coronata da un premio tanto importante.
Apprendere che l’intero archivio della vita artistica della coppia – copioni, manoscritti, bozzetti, fotografie, costumi di scena e manifesti – con offerte giunte da Svezia, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti (dopo che nel 1980 e poi nel 1983 negarono il visto d’ingresso agli attori) e Canada – finirà a Verona, è uno smacco culturale enorme per Milano, incapace, seppur guidata prima da Letizia Moratti (e posso pure capire) e poi da Giuliano Pisapia e Giuseppe Sala, (che a caldo non sa dire altro che “valuteremo…”) di riconoscere il genio di un suo cittadino illustre.
Se ciò non fosse accaduto, oggi si potrebbe elegantemente glissare su tutti quei commenti degni di un Donald Trump in piena forma da parte di chi, forse per invidia culturale, disprezza in modo così becero. E invece, di fronte al silenzio delle istituzioni, incapaci di trasmettere qualcosa più delle solite frasi di circostanza, fanno ancora più male.
Pare impossibile che, dopo il successo planetario di Mistero Buffo, trasmesso in Rai nel 1977, dopo quattordici anni di esilio e censura da parte delle reti pubbliche, si liquidi un premio Nobel come un giullare avido(!?) al servizio del potere (ma quale?) dimenticando forse che l’intero importo frutto del premio Nobel, fu devoluto nell’acquisto di mezzi per disabili.
Si può essere di destra o sinistra, atei o credenti, simpatizzanti o meno, ma è innegabile che nemmeno uno stupido sputerebbe nel piatto in cui mangia, che invece sembra essere uno degli sport preferiti dagli italiani.
Guardate solo come sono orgogliosi gli americani per il premio Nobel per la letteratura assegnato a Bob Dylan, senza dubbio un’icona musicale, ma inaccostabile al genio di Dario Fo. Attori, politici e gente comune, si ritrovano uniti nell’orgoglio di un premio che di certo ha poco a che vedere con le logiche economiche degli Oscar, e loro lo sanno bene. In futuro dovremo aspettarci fondazioni, musei e teatri intitolati a Bob Dylan, mentre noi, in diciannove anni, non siamo riusciti a intitolare a Dario Fo nemmeno una biblioteca di quartiere.
Per questo racconterò di come (non) ho conosciuto Dario Fo, anche se le nostre esistenze si sono sfiorate senza mai toccarsi innumerevoli volte.
La prima, intorno al 1977, quando Dario Fo e Franca Rame tennero uno spettacolo al Liceo Parini di Milano, che scatenò articoli in prima pagina sul Corriere della Sera (a firma Giuliano Zincone) e lettere di protesta, in cui si accusava Franca Rame di aver tenuto “lezioni di violenza” agli studenti, per il semplice fatto che il pezzo recitato raccontava di una donna piccolo-borghese vittima della violenza degli uomini, sia in casa che fuori, situazione che in Italia ha portato e porta tutt’ora innumerevoli donne al suicidio.
In un paio di lettere di risposta – consultabili nell’archivio di Franca Rame (www.archivio.francarame.it) Dario Fo risponde articolatamente alle accuse, censurando il fatto che, articolo e lettera d’accusa, fossero stati pubblicati sulle edizioni nazionali, mentre la sua risposta solo nell’edizione milanese. Anche se Fo chiosa: “È vero che i lombardi sono come certi brodi concentrati e valgono il doppio…”.
Io quello spettacolo avrei voluto vederlo. Ma non essendo uno studente del liceo Parini, ma solo un allievo del II Liceo Artistico con sede centrale in Piazza XXV Aprile e distaccamento (il mio) in via San Marco, proprio dove ora c’è l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Milano, non ci fu niente da fare. Mi dovetti accontentare di confondermi tra la folla che sostava davanti all’entrata, annusando l’atmosfera e sperando di poter vedere la coppia di attori che, naturalmente, non vidi.
La seconda volta (nel 1979) fu in occasione dello spettacolo di Franca Rame Tutta casa, letto e chiesa, (che le autorità cercarono di censurare, riservando lo spettacolo ai maggiori di 18 anni) alla Palazzina Liberty, in Largo Marinai d’Italia. Conservo ancora la tessera n. 28689 dell’Associazione Culturale la Comune. Unico documento e pagamento necessario (2000 lire) per poter assistere a qualsiasi spettacolo.
Le tessere le compilava Dario in persona e, non so se per via della confusione, o della mia timidezza nello scandire il nome, invece di Davide, capì Dario e così rimase scritto. Dello spettacolo non ricordo molto, se non che anche in questo caso, le polemiche antifemministe infuriarono a più non posso.
La terza volta (più o meno nel 1985) che mi trovai fianco a fianco con Dario Fo, già lavoravo. Il solito mini-studio grafico dalle parti del parco Ravizza, in un periodo in cui gli affari andavano così male che dovevo andare a comprare fogli, trasferibili e inchiostri per i rapidograph a seconda che si dovesse svolgere qualche lavoro o meno. Il colorificio con il conto aperto si trovava tra via Bellezza e Corso Lodi, vicino a dove Fo ha sempre abitato. Lui entrò sorridente mentre aspettavo che mi confezionassero il materiale e pareva essere di casa, perché tutti lo trattavano come un vecchio amico. Io ero troppo timido (e anche un po’ stronzo) tanto da non aver avuto il coraggio di rivolgergli la parola, e così raccattai la roba e uscii maledicendo me stesso.
Della quarta volta in cui, per interposta persona, ho avuto a che fare con Dario Fo, conosco la data esatta: 3 ottobre 2001. È la data sulla ricevuta per l’acquisto di una prova d’autore con variante dipinta di Dario Fo, venduta dal Comitato il Nobel per i Disabili. Infatti, alla faccia di quelli che hanno il coraggio di dargli dell’avido, dopo aver devoluto in beneficenza l’intero importo del premio (un miliardo e 650milioni delle vecchie lire), l’attore fondò una onlus attraverso la quale, mettendo in vendita i suoi lavori, ha continuato a devolvere aiuti ai disabili, compresi i 100 milioni di lire concordati con Radio Capital per i commenti quotidiani di Fo sul Festival di San Remo del 1999.
Ed eccoci alla quinta volta. Oggi sabato 15 novembre 2016, quando la mia vita incrocerà ancora una volta quella di Dario Fo. Succederà in Piazza del Duomo, alle 12 esatte e questa volta sarà davvero l’ultima.

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