De’ Medici senza frontiere

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Quando la Rai ha fatto trapelare la voce dell’uscita de I MEDICI- Masters Of Florence, gli interessati effettivi si sarebbero potuti contare sulle dita di una mano.

Quando la Rai ha fatto capire che nel cast ci sarebbe stato posto per Richard Madden e per un ritrovato Dustin Hoffman, l’interesse da parte degli ascoltatori ha risalito la corrente con una rapidità vertiginosa, rendendo la prima puntata uno degli avvenimenti da segnare sul calendario di un palinsesto ormai spoglio e privo d’interesse per i non amanti della tv generalista.

UN MEDICI IN FAMIGLIA

Le produzioni italiane degli ultimi anni hanno lasciato non poco a desiderare: per quanto non siano del tutto da scartare come valore assoluto, la qualità non è minimamente paragonabile alle serie che vanno in onda al di là dell’oceano (o anche solo delle Alpi). Il paragone con i giganti americani e i mostri sacri d’Albione sarebbero impietosi, ma anche guardando tra i comuni mortali non ne usciamo tanto bene, basti pensare a Les Revenants in Francia.
All’atto pratico, l’Italia è una culla di spettacoli per famiglie le cui tematiche si ripetono ciclicamente: Mafia, ospedali, preti, poliziotti, preti poliziotti et similia; conferendo ai primi sette canali del digitale l’idea di uno scarso interesse per ciò che non è facilmente digeribile a tavola.
Insomma, è da tempo che la gente non cerca più i sottotitoli per vedere qualcosa fatto da noi.
Tutto questo ovviamente rimane valido tranne che per i fiori all’occhiello dei Seriali italiani: i celebratissimi e ineccepibili Romanzo Criminale e Gomorra e la piccola perla che è Boris, tentativo azzardato di Fox rivelatosi una pietra miliare del genere.
Ciò basterebbe a giustificare lo stupore per questa mosca bianca che, oltre a un cast internazionale per vocazione e un piglio diverso dal trito e ritrito già accennato, porta un primato mondiale quantomeno inaspettato: prima serie televisiva ad essere trasmessa in HD 4K.
I presupposti per un’inversione di marcia ci sono tutti, no?
… Ni.


IL NUOVO CORSO E LE COLPE ATAVICHE

Le prime due puntate andate in onda martedì non sono certo esenti da difetti, anzi, ma non condividiamo il processo sommario della critica che ha bocciato il lavoro del team.
Certo, sarebbe difficile difendere a spada tratta chi ti riempie di aspettative per poi spezzarti il cuore, cosa che per certi versi hanno subito i telefili che hanno seguito quello che speravamo fosse il New Deal della televisione di stato, dove l’encomiabile sforzo Keynesiano di investire contro il vento sembrava far allontanare l’eco della voce di Pannofino mentre ricorda che “A noi la qualità c’ha rotto il cazzo!”.
Si parte da truccatori e costumisti che danno un effetto estremamente (e innecessariamente) Dark al tutto, cozzando inevitabilmente con la tipica concezione rinascimentale fino a un doppiaggio che si è rivelato una pugnalata al petto per chi non ha avuto e non ha la chance di guardare la serie in lingua originale, e nel Paese sacro del doppiaggio questo è un oltraggio non indifferente.
Si alternano momenti di ventriloquia a labbra che si muovono senza proferire parola, fuori sincrono e fuori luogo, ricordandoci che cosa brutta è quando un attore italiano doppia se stesso in seguito.
Preferivamo dimenticarlo, grazie.
Molti non salvano neanche la sigla, stucchevole e pretenziosa, che strizza l’occhio in parte a True detective ricevendo in cambio solo uno sguardo gelido e un due di picche.
Scusaci Skin, ma continueremo a ricordarti per Because of you.
Permettetemi però di sistemare la mia cravatta immaginaria e di vestire i panni dell’avvocato del diavolo, cercando di guardare il lato positivo e salvare il salvabile… e ce n’è.
Sicuramente si distingue il cast, che tra luci e ombre porta nomi eccellenti, nomi d’impatto e nomi inaspettati: certamente, tra un Alessandro Preziosi carismatico e forse un pelino troppo esuberante (ma ha anche dei difetti) e una Miriam Leone che sfodera un’interpretazione non certo da antologia, non c’è da rimanere inerti.
Prestazione che rispetta i suoi standard per “Il laureato” Hoffman e compitino svolto da parte del giovane lupo nei panni del vecchio, noto più per ciò che rappresenta che per ciò che è in grado di fare, non me ne voglia il pubblico femminile.
A fronte di scelte che ai più maliziosi possono sembrare dei copia e incolla di molte serie e di una lentezza inaspettata, la serie si fa portatrice di aria fresca seppur ancora “troppo italiana” per usare un Rochellismo. Per far decollare la trama ci sono ancora sei puntate e andare giù duro sui falsi storici è secondo me ingeneroso: la regola d’oro è la verosimiglianza, per la verità ci sono i documentari (sarà un paragone azzardato ma non ho visto così tanta gente stracciarsi le vesti per Narcos).
Alcune chicche per gli amanti del citazionismo sono disseminate ovunque, proprio per catturare l’attenzione di chi è in grado di coglierle: si va da quelle puramente estetiche e artistiche confinate nella scatola magica, come i corpi di Cosimo e Bianca che ricreano la pietà michelangiolesca, per poi passare a quelle che hanno colto in contropiede tutti gli spettatori già familiari con le distese di Westeros, suscitando una follia collettiva e un grande effetto di meta-televisione con una rottura della quarta parete senza neanche uno sguardo gettato in camera.
Deadpool chi?


IL TRONO DE’ BISCHERI

Sicuramente il pezzo pregiato della produzione è il Dustin Hoffman nei panni di Giovanni De’ Medici, ma il vero polo d’attrazione per il grande pubblico è sicuramente stato Richard Madden, ex quasi Re del Nord, ex Principe e ora alle prese con gli intrighi politici fiorentini.
La sola presenza dell’attore ha fatto sì che molte scene venissero automaticamente associate ad altre prese dal fratello maggiore Game of thrones (uccisioni iconiche, familiari morti prima della sigla iniziale), cosa che probabilmente è anche vera (aspettiamo tutti i draghi, sapevatelo!), ma con un gioco d’astuzia degno di Lann The Clever il trio Spotnitz, Meyer e Mimica-Gezzan (coadiuvati da un addetto al casting da 110 e lode, bacio accademico, pacca sulla spalla, stretta di mano e standing ovation) tirano giù l’asso nella manica.
O meglio il Jolly.
BAM! Tutt’a un tratto sullo schermo appare il volto anziano di David Bradley, il “vecchio infame” di ogni produzione anglofona che si rispetti, che sia un malvagio magnate in Doctor Who, un uomo sospettoso e sospettabile in Broadchurch (ma, effettivamente, chi non lo è in quella serie?) o il boss delle cerimonie da King’s landing alla barriera, è sempre meglio non fidarsi di lui.
Ora, chi ha seguito la serie sa già di cosa stiamo parlando, ma vedere su Rai 1 di nuovo insieme Robb Stark e Walder Frey nelle stesse condizioni in cui li avevamo lasciati (Cosimo sposerà la figlia di Bardi così come Robb avrebbe dovuto sposare la giovane Frey), ma con esiti completamente diversi ha mandato in brodo di giuggiole diversi spettatori, me compreso.

 

I MEZZI GIUSTIFICANO IL FINE

La serie si rivela quindi altalenante, alternando momenti di godibilità estrema a dei “meh” prorompenti; plauso al merito per lo sforzo che sopperisce al divario di talento (o, meglio, di talenti) che finora abbiamo colmato solo con esportazioni (Lorenzo Richelmy da applausi e soprattutto quel mostro che è Favino) e rari exploit come Lo chiamavano Jeeg Robot e le già citate tre serie.
La strada da percorrere è ancora lunga, lunghissima, ma ogni viaggio inizia con un passo.
Sarò anche banale e prevedibile, ma chissà che Firenze non si riveli la culla del Rinascimento Mediatico Italiano.

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