Le piacciono i cimiteri, specie di notte.

Ogni volta che può si accosta a quei cancelli rimanendo devota ad osservare quella distesa di pace sfavillante, così appartata rispetto alla vita. In visita una località nuova, non riesce a resistere alla tentazione di andare a visitarne il campo santo.

Un cimitero è la distesa di un niente che un tempo è stato tutto. Un passato potente di esistenze che si sono fortemente illuse di esistere, finché ad un certo punto non hanno più saputo nulla del mondo di cui si credevano parte. Ma dove la somma di tanti niente misteriosamente diviene un coro solenne e autorevole che esprime più forte il mistero della vita. Due sentimenti opposti vi convivono: mentre depositati in quell’area neutrale alle cose sensibili gli invisibili abitanti ispirano la sinistra idea che la vita sia uno scherzo di estrema crudeltà, ad una data ora improvvisamente scaduto, dall’altra parte dei sentimenti trasmettono la sensazione che quel niente percepito sia il senso ultimo che tutti cerchiamo con il lato più ignoto del respiro. Esposta a questi sentimenti, qualcosa come un vento leggero e tiepido la assale persino nell’inverno più acuto.

Allora, ecco, lei oltrepassa volentieri i cancelli eleganti dedicati a quell’area che ovunque sulla terra con forme diverse è per tutti la stessa cosa sacra.

Perché sappiamo che santo è tutto ciò che non possiamo capire. E quella santità lei la percepisce come un odore: lo speciale odore di ciò che non si sa.

Camminando quieta e rispettosa per non disturbare, non riesce ad immaginarsi appartenente al coro sommesso di passati, ma lo stesso le è imperioso trovarsi a proprio agio in quel luogo di cancellazione, dove malgrado tutto gli occhi vogliono essere ancora occhi, il respiro permane, le gambe avanzano solide e i piedi formicolano gentilmente sulla ghiaia al nostro passaggio lungo vialetti ordinati in cui sentirsi definitivamente soli di fronte al mistero.

Quando poi giunge a casa, un’eccitazione gentile la prende, e vorrebbe sfogare la vita che in lei chiama.

Il silenzio del suo appartamento, le tende che velano di poco dall’alto la veduta della via, la paura e la gioia che la pompa del suo cuore le procurano, sono sufficienti perché lei senta l’importanza di esserci, e di essere lei sola, lei l’unica, lei la vera se stessa e nessun’altra sulla terra come lei ad essere quella cosa dolce e profonda, calda e liscia, vibrante come una macchina più che perfetta, che più di così non si può, venuta a rinforzare dal di dentro la bellezza della vita.

Sa di essere un miracolo di carne, e vorrebbe poter donare anche un solo alito del suo pensiero al mondo.

Sa di tutti coloro che prima di lei hanno consumato l’urgenza bruciante di vivere, e quanto tutto ciò abbia avuto infine un termine, malgrado tutto. Malgrado la bellezza provata, malgrado tutto il bene che ha riempito occhi e tracimato respiri.

Rivede suo padre cinquantenne, calvo e in camicia, sporto su un balcone estivo, bello di una bellezza buona e quasi antica, intento a consumare sigarette mentre la sera matura in luce bionda, e vede quanto fosse vivo in quel momento, le vene del collo gonfie di sangue, l’occhio luccicante. Eppure il suo passaggio nel mondo una volta sfumato non qualifica più niente altro se non la sua aggiunta alla somma anonima di tutte le biologie che hanno formato la giostra umana.

E poi vede sua madre, pervasa da un dolore permanente, mai raggiunta da un raggio di felicità, per quanto fosse visibile giudicare dall’esterno. Sempre tesa, sempre malinconica e desiderosa di dare attorno a sé una qualche utilità. Per poi infine scivolare lei pure nel niente indistinto.

E capisce così l’eredità, il necessario compito di essere cosa pulsante, ed esserlo ora e per sempre, nel sempre eterno che prosegue dentro ciascuno, sebbene una volta accolti nell’insieme del fuoco aereo che ci prende non si intraveda più quella singola fiamma.

Proprio la nostra, ci crederesti?, unica e non ripetibile.

E come sa bene invece di un fuoco che non si spegne mai.

Nessuno potrà provarlo, ma se c’è stato un ieri del mondo, se vi sarà un domani, è per quel fuoco del quale lei sa di essere adesso combustibile radioso.

Fa un giro della casa, sente il calore salirle dai polsi, presto sarà di nuovo primavera, non è più freddo, si scoprono volentieri le braccia e le gambe, l’aria profuma di legna bruciata e la sera è ancora così lontana.

Passa davanti a uno degli specchi dei quali ha disseminato la sua abitazione, sfiora il divano candido, sente lieve il bisogno di liberare la vescica. Raggiunge il bagno, siede sulla tazza, e quel senso delicato di vita che parte dalle sue esistenze interiori, laddove neppure lei può vedersi, in quel grumo giusto e regolato di sangue e di tessuti adatti a reggere il suo esistere, ossa, legamenti, spugne e tiranti, liquidi e meccanismi, le suggeriscono con lo sgorgare del fiotto quieto emesso, una pace decisa con se stessa e con ciò che sarà.

E ascoltando il suo flusso di acqua elaborata raggiungere la piccola aureola d’acqua limpida della tazza, pensa ogni nuova volta quanto sia stata fortunata a illudersi sino a quel punto, lei pure, di esistere.

 

 

gianCarlo onoratoMusicista, scrittore e pittore fuori dagli schemi, ex leader di Underground Life. Ha pubblicato i dischi: Il velluto interiore (1996), io sono l’angelo (1998), falene (2004), sangue bianco (2010, Premio Giacosa), ExLive (2014) con Cristiano Godano, quantum (2017), “quantum Edizione Extra” (2018), ha curato la co-direzione artistica del Tributo a Luigi Tenco come fiori in mare Vol. I (2001) e Vol. II, in “Sulle labbra di un altro” (2011), ed i libri: Filosofia dell’Aria (1988), L’Officina dei Gemiti (1992), L'ubbidiente giovinezza (1999), Il più dolce delitto (2007), “ex-semi di musica vivifica” (2013), La formazione dello scrittore” (2015). Ideatore del Seminario del Verbo Musicato, ha centinaia di concerti alle spalle e un disco, un tour e un nuovo romanzo nel prossimo futuro. giancarloonorato.it

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci qui il tuo nome