L’ultima notte che dormii nella mia vecchia casa, fu sinistra e interminabile.

Distesomi a letto vestito, tutti i fantasmi della mia intera vita passata mi svolarono sul viso e mi toccarono in vario modo.

   L’anima della mia gatta adorata, col suo spirito sinistro e feroce, mugolava dolorante dall’abisso sottostante il letto, ed io non potevo aiutarla in alcun modo, posta com’era sul ciglio troppo avanzato di un nulla a me inarrivabile. La sentivo guaire dal nulla, come il cane che avrebbe tanto voluto essere, riuscendo persino nella disperazione bucata della galassia, a imporre il suo canto di morte.

   Cercai quindi in un sonno tormentato di riconoscere nel coro sommesso la voce dei miei cari. Volevo intuire, sapevo di poterlo fare, la voce gentile di mio padre: – Carlo, Carlo, credevo sussurrasse tra la folla, ed io pur sentendo di poterlo fare non lo sapevo udire.

La cartilagine torbida che mi separava dal non si sa si infittiva in continuazione e poi diradava come un tessuto malconcio, al quale alle volte mancassero dei lembi, altrove invece rigido e intarsiato di bianco come ragnatela celeste.

   Ed io vagavo, alla ricerca di un sonno più dolce, di un addio giusto e gentile al luogo che mi aveva visto crescere, amare forte, sbagliare tutto, dipingere, scrivere ogni cosa su ogni cosa, fingere a me stesso d’essere musicista per evitare di dirmi che la musica, come anche una sostanza di vita, non esistono. Invano: uno spalancato di mondo sconosciuto sul quale probabilmente tutti viviamo sospesi si voleva aprire sotto di me come a dirmi: ora te ne andrai e sarà tutta un’altra storia, questi muri marciranno presto e non sentiranno più un sussurro, un gentile lamento di amante ferita, o il tintinnare di corde appena montate su strumenti in perenne divenire, chitarre roche e pianoforti poco accordati, fornelli che soffiano il proprio bluastro alla notte e sommessi rumori di cene al mattino. Non ci saranno più notti interminabili, né albe colte all’improvviso dal piccolo oblò più alto della stanza da pranzo. Come a dire: le cose infine finiscono, e la loro fine ci finisce per una nuova volta, definendoci per il poco che siamo stati capaci di essere, e vomitarci presto verso ciò che non sapremo ancora.

Questo commiato sinistro e malato mi avvolse di ora in ora, e neppure volendo mi sarei mai svegliato, sentendo in profondo che non fosse neppure dormire, bensì scontare una qualche colpa, e sentendo inoltre che avrei dovuto scontare quel mio andare per un verso diverso da ciò che mi aveva abbozzolato, accolto e protetto come un antro, un otre, un ventre a lungo andare divenuto assiduo più che noto.

   In un angolo alto scorsi lo spettro nobile e ancora fresco di David Bowie: avrebbe tanto voluto sorridermi e spiegarsi, sembrando dire senza voce: vorrei poterti aiutare, ma non so neppure dove siamo, where are we now, I wonder, and it’s so far, everything it’s so far; e le sue parole vaporavano in un freddo inusitato il suo fiato di sigaretta Gitanes che ingrigiva le pareti già poco chiare e sempre più vicine al punto ormai da credersi toccabili. Dal suo sarcofago di luce, la sua bellezza ormai vetusta e malata mi baciava di lontano, volendomi dire che al mondo sì, si passa ad un certo punto per altre stanze che non sapremmo descrivere, e che prima mai avremmo saputo immaginare.

E nel sonno io pensavo che dunque deve esservi un passaggio tra la vita e il mistero, se persino uomini così densi lo hanno passato, malgrado tutto.

   Un giorno a scuola un ragazzo, sapendo del mio amore per Lennon, per farmi torto mi disse che persino lui infine era morto. Ed io avevo incassato quel colpo vigliacco e sbagliato che pure riusciva a dolermi, benché sapessi che invece, dalle pagine giuste, si rivive ogni volta. Ma era passato così tanto tempo da quella costatazione, mi era scivolata così tanta vita addosso, e ora dov’ero finito con la parte più astratta di me?

   Ma guardai meglio. Mia madre, in un’alba asfittica, senza parole ma con tanti sentimenti diversi negli sguardi, nuotava tra oceani di persone nei quali scompariva per poi riemergere, e la stanza fluttuava con me in un liquido denso e senza sosta, come in un teatro povero, dove l’acqua è solo movimento di scena che vuole farcela immaginare.

Ah, ma allora tutto questo deve significare qualcosa, mi dicevo cercando il risveglio ma incapace di darmi un’uscita da tutto quel dolore, – deve esserci un passaggio nascosto e profondo, che permetta a chiunque di cambiare galassia, tempo e sguardo, e io proprio ora che lo avverto non so come fuggirne, mentre vorrei, eccome vorrei, come sempre ho voluto, come tutti, comprendere che cosa sia.

    Ma la vita, chiedevo allora ai mie spettri, la vita che cosa mi dite che sia?

E il navigato di tutte quelle presenze non voleva parlare, ma solo oscillare come in una costrizione afflitta eppure ormai voluta, come un mare umano, come fossero desiderosi solo di trasportarsi per un tempo che non vuole più misure, intrinsecamente impensabile.

   Il letto che prima bruciava, subito dopo alternativamente sembrava ghiacciare, in una notte così poco nota, così ultima e intrisa di abbandoni fatali.

   Poi con la luce che lentamente saliva, mi ricordai che Jung per tutta la vita aveva cercato un trasporto tra ciò che crediamo materia e ciò che ci forma nell’intoccabile. Aveva commesso l’azzardo di ipotizzare che se la vita è illusione, è il sogno il viaggio che ci conduce tra una dimensione e l’altra. E a quel punto potei ricordare che persino la fisica più evoluta volle riconoscergli che, sebbene non si riuscisse a dimostrarlo, pareva proprio avere ragione.

Jung, ti canterò una canzone se almeno tu mi lasci andare. Ti piacerà, ne voglio essere certo, la canterò senza parole, perché quelle, tu lo sai, sono nate sempre dopo, troppo dopo il contenuto che vorremmo cantare, e come occhi che brillano, solo i suoni significano molto più dei nostri versi in tutte le lingue del mondo.

Jung, Jung dove sei finito, e il tuo Schopenhauer, dimmi, lo avrai mai incrociato o anche solo intuito da quella parte del navigare? Ti avrà, che so, sfiorato una volta, ché ti aveva tanto illuminato da vivo.

E ora, soprattutto, che farete, che fate di là? Bowie, Jung, papà e mamma, e che farò io, che vi ho amato e non mi so svegliare, ora che non ho più neppure una gatta cattiva e innamorata, né più un genitore, non più una vecchia casa, non più la vita che avevo.

Solo una nuova paura.

   Di mattina, molto presto, bevvi un sorso di tisana allo zenzero per curarmi il dolore allo stomaco e lo smarrimento, tossii forte e riguardai con un nuovo coraggio le pareti scrostate. Lo stridere delle gambe della sedia sulla quale scalpitavo coi pensieri si amplificava nel vuoto della stanza mettendo così tanta tristezza.

Ma lo stesso posai la tazza e dissi a me stesso: e sia.

   Probabile che nella casa al mio addio si scatenasse un subbuglio inudibile.

 

gianCarlo onoratoMusicista, scrittore e pittore fuori dagli schemi, ex leader di Underground Life. Ha pubblicato i dischi: Il velluto interiore (1996), io sono l’angelo (1998), falene (2004), sangue bianco (2010, Premio Giacosa), ExLive (2014) con Cristiano Godano, quantum (2017), “quantum Edizione Extra” (2018), ha curato la co-direzione artistica del Tributo a Luigi Tenco come fiori in mare Vol. I (2001) e Vol. II, in “Sulle labbra di un altro” (2011), ed i libri: Filosofia dell’Aria (1988), L’Officina dei Gemiti (1992), L'ubbidiente giovinezza (1999), Il più dolce delitto (2007), “ex-semi di musica vivifica” (2013), La formazione dello scrittore” (2015). Ideatore del Seminario del Verbo Musicato, ha centinaia di concerti alle spalle e un disco, un tour e un nuovo romanzo nel prossimo futuro. giancarloonorato.it

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