Sento che le cose vanno male.

Sento il critico letterario Paolo Mauri sostenere che agli scrittori manchi ormai l’aura. Dice ancora che la maggior parte di noi ha smesso di leggere, mentre sono troppi quelli che scrivono.

Ora, il guaio che oscura il nostro pensiero è che tutto questo è vero.

Ne sono talmente convinto che mi tocca ricordare di averlo detto e scritto diverse volte, in più ambiti, accompagnato, nel mio caso come nel suo, da una certa diffidenza e perplessità.

Sono parole che sembrano disturbare perché considerate estreme.

Ma se si mette da parte il pensiero dozzinale che offusca tante menti, si può vedere che la presunta democrazia intellettuale dei nostri giorni nullifica carisma ed esclusività di chi ha idee capaci di rigenerare il mondo. È un meccanismo che annacqua e disperde la densità e l’unicità necessaria del pensiero, distribuendo tra milioni di teste le stesse misere verità, cosicché ogni singola testa che si illuda pensante, non fa che ripetere ciò che chiunque altro potrebbe dire avendolo a propria volta imparato come per ipnopedia.

L’ipnopedia è una tecnica in base alla quale puoi acquisire dei concetti se ti vengano suggeriti durante la fase del sonno.

Fin troppo evidente che il sopore che dilaga grazie alla comodità di raggiungimento di un qualunque presunto contenuto, fa sì che lo si possa credere nostro anche senza saperlo, senza averlo approfondito e messo in discussione.

Così non mi resta che girare e rigirare a mia volta lo stesso coltello nella medesima piaga: scrivono in troppi perché non leggono né hanno letto a sufficienza, o se lo hanno fatto, non hanno compreso ciò che conta. Tecnicamente parlando, se leggessero davvero, o davvero lo avessero fatto, avrebbero avuto o avrebbero molto meno tempo per goffi tentativi di scrittura, voli da tacchino applauditi da astanti imbecilli, e vergognandosi si renderebbero forse conto del fatto che non è poi così valido il contributo da essi offerto alle lettere.

Il guaio ulteriore, per uno come me ma non solo, è che accade esattamente lo stesso in fatto di musica.

Per musica intendo la musica popolare, così facciamo prima. Se vogliamo, restringiamo ancora l’ampiezza delle ali, e limitiamoci alla canzone, così nessuno si offenderà, o forse sì, ma fa lo stesso. E che cosa è la canzone se non una forma di narrativa?

Assisto a una grande kermesse musicale, in cui si prospetta di ascoltare molte chicche di bontà, ed io ci vado col sereno proposito di imparare qualcosa. Ma una volta arrivato, vedo che è proprio come entrare in una sfavillante libreria e sfogliare alcuni titoli boriosi a caso: un vento desolante batte praterie prive di senso.

Che sottile inquietudine, ti prende. Quale tristezza. È come se il significato tendesse a evaporare gradualmente. Come un’essenza amata un tempo, che tenda a svanire.

Al suo posto vi è un forte affollamento di nullità concrete che si spacciano per elementi sapienti, per necessari. Che si danno un gran da fare per fare promozione di sé e della propria imperdibile importanza, capaci semmai di blandire senza ritegno i destinatari delle proprie banalità.

Tornado a una dolcissima casa, ripensandoci ho incontrato una sola evidenza: che si affollano palchi e scaffali, ma ciò che rimane dentro è solitamente un residuo secco e minimo, una specie di nulla fattosi pulviscolo, che tende a spolverarsi nell’aria.

Ho concentrato il mio amore sul mio amore, e ho capito di avere solo me stesso.

Una zingara tanto quanto un fantasma, in tempi diversi, mi avevano suggerito una sola parola: solo. Probabilmente le entità che non vogliamo considerare contengono il nostro destino interiore più di quanto siamo disposti ad accettare.

Ho rivolto lo sguardo al mio amore. Lo so che sei con me, ma lo stesso tutto ciò che abbiamo intorno tende a scomparire.

Allora dove sta finendo tutto.

Se andassimo indietro nel tempo io e te a cercare tempi migliori, se leggessimo ad esempio le cronache di cinquanta anni fa, è probabile che troveremmo riflessioni e lamentele simili a questa. In tutte le epoche si lamentano guai simili. Ma questo non ci salva, poiché il problema che ci ammala oggi è ciò che ci ha anche migliorato. Le verità di ieri non sono le stesse oggi. Ogni tempo ha la propria verità, obbedendo questa sensibilmente, come il tempo, alle leggi di una fisica ineffabile.

Allora vediamo che cosa abbiamo a disposizione:

una potente giostra di potenziale divulgazione di ogni singola cosa, che illude tutti di avere ragione di esistere e svuota ciascuno di noi, sbattendolo violentemente contro le pareti della propria irrimediabile solitudine.

Ovunque andrai, scoprirai che stanno tutti scrivendo o pubblicando un libro, un disco, una app, una start-app. Chi si lancia su canali di contatto sociale, al posto di informarsi e di partecipare sensibilmente al mondo, si illude di poter pubblicare con potenza di significato le immagini dello speciale pranzo fatto con gli amici.

Chiunque, ovunque, parla di pubblicare, di promuovere, lanciare, di divulgare, parla di azione virale di un messaggio, di raduni gestiti tramite un certo sito di scambio sociale, e così via.

Un rubinetto sempre aperto, una dispersione delle coscienze senza sosta. Che fa perdere significato ad ogni singola intimità.

Ne “La peste” di Camus, c’è un uomo solo che si muove in uno scenario in cui tutti cadono via via vittima dell’epidemia. Questa come quella è una malattia terribile e metaforica, un virus che contagia tutti lentamente, facendo sì che chiunque, dimenticandosi di ascoltare il mondo, arrivi a credersi importante per il semplice fatto di illudersi di poter diffondere facilmente, e senza alcun filtro che ne certifichi l’opportunità, qualunque scemenza gli passi per la mente.

Di scemenza in scemenza, di vuoto in vuoto, il livello generale delle intelligenze si abbassa, la capacità di intendimento e di capacità critica pure, le pretese di chi fruisce, legge, ascolta, divengono modeste.

Così anche chi di mestiere fa l’editore, il discografico, il produttore cinematografico o il libraio, finisce per convincersi che certa piccola cosa possa essere spacciata per letteratura, per cinema, per musica. E così via, ditelo voi.

Come in una pessima pellicola di zombies, il tuo vicino può rivelarsi contagiato a propria volta senza che tu abbia potuto accorgertene, e ti passerà quella peste schifosa.

E così gradualmente persino chi dovrebbe saper proporre, smette di essere in grado di capire, divenendo fesso quanto il pubblico che ha contribuito a creare. Divenendo come nel più classico racconto d’orrore vittima del mostro creato.

Se i libri sono stati sino a ieri la nostra memoria storica, ciò che ci ha permesso di tramandare ciò che abbiamo appreso del mondo, ora il mostro formato dall’enorme massa di materia cartacea che invade le librerie con la pretesa di essere letteratura, di essere cosa significante, costringe tutti a una progressiva superficialità e velocità in ogni considerazione. Ne discende che l’opera si rimpicciolisce in tutto e per tutto, persino nella sua ragione di esistere, e anche i suoi tempi di esistenza sono minimi, giacché ogni editore si convince presto e per primo del fallimento di un libro, e poche settimane gli bastano per abbandonarlo al suo orribile destino di cosa inerte, e per sostituirlo con un nuovo inutile, sterile tentativo al quale affidare l’ennesima e vana speranza di fare fortuna. Come fosse un “gratta e vinci”.

Perché è la fortuna che cercano, non certo la divulgazione di bene intellettuale.

Tutti sognano fortunose vendite.

Gli scrittori presunti, così come i musicanti, perdendo di vista ogni significato, troppo laborioso e impegnativo da cercare, – mentre sappiamo tutti che non c’è tempo, è tardi, tardi -, sono diventati uguali a chi li pubblica: tutti sognano per sé favolose riuscite, orde di fans in delirio, prospettive che facciano di loro dei privilegiati che tutto possono. Perché chi va bene presso un grande pubblico può permettersi tutto, anche di vaneggiare, e sarà creduto. Difficilmente troverà qualcuno in grado di contraddire il suo vuoto, e se lo trovasse potrebbe sempre obiettare con spocchia, chiedendogli da quale posizione possa mai parlare chi di successi non ne ha.

Se non hai successo non esisti.

Si diceva tempo fa con amarezza che non passare in televisione equivalesse a non esistere, ma ormai quel paradigma è superato.

Se non hai migliaia, milioni di click, che è uno stupido gesto su uno stupido tasto, a tuo favore, se non muovi masse attorno a qualunque idiozia ti venga da lanciare ogni mattina, non conti nulla. Dunque inutile persino che tu parli, perché nessuno ascolterà.

Un tempo le dittature erano basate sul divieto di pronunciare verità scomode a chi deteneva il potere.

Oggi la dittatura in vigore è sancita da ogni singola e inutile testa parlante, e permette l’annullamento automatico di chi volesse opporsi al sistema, annullamento dato dall’indifferenza nella quale viene relegato il dissidente.

Emilio Del Giudice era un fisico teorico che pochi hanno conosciuto, e sosteneva che se la dittatura è fondata sulla forza bruta, la democrazia è fondata sulla menzogna.

Tutto questo, e molto altro, dovrebbe darci la misura del nostro male, ma noi preferiamo stordirci con passatempo che ci producono un piacere immediato, ma ci renderanno impotenti in futuro.

Non vediamo che dalla nostra inerzia personale derivano persino nuove direzioni abnormi prese da pensieri collettivi, già sulla via del disastro, così come dalla malattia di una singola cellula si aggrava via via lo stato generale di salute di un intero individuo.

Se mi fossi addormentato cinque anni fa e svegliato di colpo oggi, troverei che molte assurdità hanno preso forme concrete: gli americani hanno ad esempio scelto democraticamente di eleggere un mostro che farà crollare il loro Paese e metterà a rischio gli equilibri planetari. Del resto, se penso che qualche anno fa avevano il vizio di eliminare fisicamente i migliori presidenti, i più democratici, i neri in vista, e tutti coloro che ai vertici si azzardavano a tentare di migliorare le sorti collettive, devo concludere che vi è una buona dose di coerenza e di crescita persino nel delirio dell’elezione di un babbeo che gioca a Risiko con il mondo intero.

E come ci siamo arrivati?

Smettendo il significato, smettendo il pensiero, credendo alle scorciatoie, e illudendoci di avere subito da dire qualcosa quando dovremmo imparare a tacere, ad ascoltare e a prepararci bene prima di sputare.

Editori, insegnanti, intellettuali, musici, scrittori, teatranti e sceneggianti hanno la prima responsabilità delle sorti storte del mondo. Costoro predicano per subdola via a favore di un suicidio collettivo in nome di profitto personale.

E perché mai un uomo dovrebbe erodere tutto il terreno che lo circonda se poi non gli resterà più suolo sul quale camminare e sopravvivere?

Per potersi sentire qualcosa più degli altri.

Una droga i cui effetti si cercherebbero fino alla morte, esattamente come una cavia che abbia imparato a premere un tasto collegato a elettrodi che gli pendono dalle meningi, e che a ogni nuovo pigiare quel tasto maledetto proverà una scarica artificiale di piacere.

Per questa droga nefanda di credere di contare qualcosa, chiunque di noi darebbe tutto, anche se non vuole sentirselo dire.

Vogliamo esaminare il suicidio degli editori? Eccolo. Smettendo via via di essere promotori di idee, perderanno la capacità di giudizio e ogni senso primigenio del proprio ruolo, pur continuando a lamentare di non vendere a sufficienza le idiozie che mediamente si precipitano a mettere al vaglio di un fantomatico e sempre più evanescente lettore. Finché anche pubblicare cose significative non avrà più alcun senso, poiché non vi saranno più lettori in grado di coglierle. Così fino alla sparizione del lettore e alla conseguente fine del mestiere di editore.

Non è forse accaduto così all’industria del disco?

E il resto aggiungilo tu.

Perché in questo delirio al ribasso, in cui per vincere occorre dare il meno possibile, un niente purché sia ben confezionato, a perdere tutto sei tu.

Perderai di vista te stesso.

Non saprai più da dove cominciare a pensare.

Finirai per credere anche tu che per esistere occorra avere successo, e per averlo occorra inventare qualcosa, e farlo in fretta, o lo farà qualcun altro.

Così ti intristirai.

Perderai il fuoco del tuo amore. Dimenticherai lo sguardo di luce di chi ti ha smosso il sangue e ti ha rimesso al mondo anche solo baciandoti una mano o strofinando la fronte contro la tua, e inizierai a guardare con invidia chi sembrerà trionfare sugli altri e con pena al tuo riflesso sulla vetrina del sogno non pubblicato.

Non saprai più sussurrare a nessuno il tuo desiderio.

E la vita trascorrerà in un attimo, mentre starai ancora pensando di doverti sbrigare a diventare qualcuno che possa essere invidiato.

E se non avrai desiderato mai, se non avrai desiderato più, avrai perso consistenza, volatilizzando come il libro e come il disco che non riesci più a incontrare, quel bel libro, quel bel disco che ti hanno scosso fino al midollo e che tu credi ormai non esista più.

Così credi.

Ma se lo incontrassi, così come se reincontrassi lei/lui non sapresti riconoscerli, non sapresti sentirne la voce.

Perderai l’aura.

Tendente alla dissolvenza, al nero.

E ciò che è peggio, è che crederai anche tu, come tutti, che sia giusto così.

gianCarlo onoratoMusicista, scrittore e pittore fuori dagli schemi, ex leader di Underground Life. Ha pubblicato i dischi: Il velluto interiore (1996), io sono l’angelo (1998), falene (2004), sangue bianco (2010, Premio Giacosa), ExLive (2014) con Cristiano Godano, quantum (2017), “quantum Edizione Extra” (2018), ha curato la co-direzione artistica del Tributo a Luigi Tenco come fiori in mare Vol. I (2001) e Vol. II, in “Sulle labbra di un altro” (2011), ed i libri: Filosofia dell’Aria (1988), L’Officina dei Gemiti (1992), L'ubbidiente giovinezza (1999), Il più dolce delitto (2007), “ex-semi di musica vivifica” (2013), La formazione dello scrittore” (2015). Ideatore del Seminario del Verbo Musicato, ha centinaia di concerti alle spalle e un disco, un tour e un nuovo romanzo nel prossimo futuro. giancarloonorato.it

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