Riccardo Biadene: «Guardare il mondo occidentale dall’esterno per riassestarlo»

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In una contemporaneità in cui l’Occidente continua a vivere in bilico tra il lasciarsi andare completamente alle nuove tecnologie e una riscoperta della spiritualità, rappresentata dalla filosofia indiana, Riccardo Biadene porta al cinema Alain Daniélou – Il labirinto di una vita, film che racconta la storia dell’uomo che ha “portato l’India in Europa”.
La nostra intervista:

Come si è avvicinato al personaggio di Alain Daniélou?
Daniélou mi diede un suo libro quando avevo 14 anni. L’idea della realizzazione di questo film è nata grazie alla sua fondazione, India – Europa, e al suo compagno che, scoperto il mio interesse per la musica indiana, mi chiese di iniziare a collaborare con lui, e così è nato il progetto di girare il film insieme.

Lei è uno studioso della filosofia orientale?
L’elemento fortemente condizionante per la realizzazione di questo progetto è stato sicuramente un viaggio in camper in India e Afghanistan: viaggio durato un anno, fatto quando ne avevo sei. Quindi, la dimensione del viaggio, in questo caso musicale, è la poetica narrativa che m’interessa di più; così come il suono come elemento primordiale e le culture orientali – in particolare quella indiana – sono ciò verso cui ho indirizzato i miei interessi negli ultimi anni.
Provare a riassumere la vita straordinaria di Daniélou mi sembrava una splendida sfida. La difficoltà di sintesi è stata enorme, perché si tratta di un personaggio estremamente eclettico, che si è sviluppato all’interno di moltissimi ambiti disciplinari. Fare un compendio di un’ora e venti di una vita così densa, sapendo di omettere moltissime cose, è stata la parte più difficile.

Un documentario realizzato tra l’Europa e l’India. Ci sono stati dei luoghi in cui ha avuto delle difficoltà a girare?
Purtroppo sì, molti. Non esistono protocolli d’intesa in ambito produttivo tra l’India e l’Unione Europea e, di conseguenza, è frequente trovarsi ad affrontare problemi burocratici anche piuttosto complessi. Fortunatamente l’abnegazione della troupe ci ha permesso di lavorare molto bene e intensamente. Abbiamo girato molto, sia con le telecamere che geograficamente, e in molto tempo: due mesi.

Ultimamente c’è una riscoperta del mondo orientale: da alcuni presa molto sul serio, da altri in maniera piuttosto superficiale, come ci racconta Occidentali’s karma di Gabbani. Cosa ne pensa?
A meritare di essere presa in giro è quell’attrazione ingenua e superficiale dell’idea di India legata alla spiritualità in maniera molto astratta. Quello indiano è in realtà un popolo estremamente pragmatico, che però non ha reciso il legame con lo spirito. Anzi, l’assenza della secolarizzazione in India è secondo me una delle ragioni per cui si continua a guardare a quel Paese come un luogo in cui connettere l’individuale all’universale. L’idea del soggetto in rapporto con l’universo accompagna la gestione della propria vita per gli indiani; quindi, lo smarrimento del senso, prodotto dalla subalternità dell’umanesimo alla tecnologia com’è in occidente, è uno dei motivi per i quali l’India è tornata a essere un luogo di attrazione.
Penso quindi che Occidentali’s karma racconti sia l’ingenuità di chi si rivolge a questa cultura con smarrimento e superficialità, sia una condizione reale dell’occidente, alla ricerca di un senso compiuto e pertinente che metta insieme le proprie azioni e il proprio modo di stare al mondo.

Per quanto ingenua, può essere una fase “embrionale” di quanto auspicato da Daniélou o siamo senza speranze?
Le speranze non ci sono, così come il tempo non esiste, parafrasando la frase di Nietzsche di Daniélou. Uscire dal proprio “mondo” culturale può essere un’opportunità per osservarlo dall’esterno, riassettarlo e ricostruirlo, dopo aver capito l’ordine delle nostre priorità. Daniélou stesso non ha mai dismesso i panni dell’europeo, sebbene abbia addirittura vissuto le esperienze di iniziazione allo shivaismo ortodosso e all’induismo. Ma non per questo ha rinnegato la sua formazione europea. In ambito musicale, si è battuto contro la fusion, intesa come esotismo che unisce malamente linguaggi formali differenti, quali sono le musiche di Paesi di diverse tradizioni culturali; ma questo non gli ha impedito di coniugare la sua esperienza culturale con quella indiana, avendo messo in musica le canzoni di Tagore. Semplicemente l’ha fatto con la dovuta attenzione, impiegandoci circa 20 anni.

Che tipo di pubblico pensa possa avere il suo film?
Soprattutto persone interessate all’indiologia e alla musica indiana. Però credo che possa suscitare interesse anche in un pubblico privo di competenze specifiche. Delle 300 persone che c’erano in sala al Biografilm Festival di Bologna per la prima italiana, nessuno si è alzato per andare via. Sembra una sciocchezza, ma in realtà questo è il risultato migliore che potessi ottenere. Soprattutto in un festival dove, giustamente, chi non è interessato va a vedere un altro film.

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