Quando tornai a casa dagli i-Days di Monza quel che più mi rimase impresso e di cui scrissi non fu il concerto, ma la pessima organizzazione del festival. È ovvio che, dopo aver saputo del suicidio di Chester Bennington, quel concerto ha immediatamente avuto una valenza diversa. Ripensi alle canzoni, allo show, al suo sguardo, a quel che la musica è stata in grado di donare. Soprattutto pensi alle parole della loro canzone più famosa, In The End, che, col senno di poi, sembrano essere tremendamente premonitrici «I tried so hard and got so far, but in the end it doesn’t even matter. I had to fall to lose it all, but in the end it doesn’t even matter».
È difficile digerire una morte simile. È difficile comprenderla. Credo però che solo una persona con una visione della vita superficiale possa dire che un cantante non abbia “diritto” di suicidarsi perchè ha soldi, donne e successo. È da stupidi credere che una vita possa ridursi semplicemente a questo. Ancor più da stupidi è pensare che il male di vivere si possa accanire solo su persone che hanno una vita “normale”.
Le notizie che arrivano ora dopo ora dagli Stati Uniti sono solo un macabro voyeurismo. Il suicidio è un atto “egoistico”, per quanto questa parola debba essere presa con le dovute precauzioni. Egoistico perchè una persona decide di farla finita causando un dolore enorme ai suoi cari, ma è impossibile biasimare chi fa questa scelta perchè questi mali non lasciano molte vie d’uscita.
Il pensiero in questi casi va alla famiglia, ai cari, ma anche ai fan, a chi si è rispecchiato in Chester e nei Linkin Park, a chi lo ha preso da esempio o mentore, pur non avendolo conosciuto, ma che hanno perso un riferimento a cui affidarsi. Quel che consola, seppur in minima parte, è che la musica è eterna ed il suo ricordo, il suo talento ed il suo carisma saranno immortali.
Il ricordo che porterò con me sarà quella In The End cantata a Monza da 85.000 persone.