Their mortal remains: il reportage dalla mostra sui Pink Floyd a Londra

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Pink Floyd
Foto: Andrea Giovannetti

Il Victoria & Albert museum di Londra è il più importante al mondo per quello che riguarda le arti applicate e le arti minori, ma nonostante i suoi oltre 5 ettari di estensione e 4,5 milioni di pezzi esposti che coprono 5000 anni di storia del nostro pianeta, la coda più lunga era proprio per Their mortal remains, la mostra sui Pink Floyd, che è stata appena prorogata fino al prossimo 15 ottobre e che fino ad ora ha fatto registrare oltre 300.000 visitatori da tutto il mondo.
Per un fan della band visitare la mostra è come per un bambino trovarsi nel più grande negozio di giocattoli del mondo, perchè qui, finalmente e per la prima volta, c’è davvero tutto, e si può entrare completamente in quella che è stata la storia della band, dalle prime canzoni fino a The endless river.

All’entrata ci viene consegnato un paio di cuffie Sennheiser che ci faranno da guida lungo tutto il percorso della mostra, cambiando contributo audio a seconda della zona in cui ci troviamo e passandro quindi da canzoni relative al “periodo” o all’album di cui stiamo vedendo la storia e i cimeli, fino all’audio delle interviste e dei contributi video che scorrono sui tanti schermi disposti nelle varie sale.
Trovandoci a ripercorrere la storia della band dagli inizi per prima cosa entriamo fisicamente nel furgone Bedford nero con la banda laterale bianca che veniva usato nei primi concerti, quando ancora il gruppo si chiamava The Tea Set.
Veniamo subito catapultati in un mondo psichedelico, negli anni della Swinging London e in una stanza piena di cimeli dell’epoca: poster di concerti, cravatte originali in stile sixties, mentre su una parete troviamo l’albero genealogico dei Pink Floyd, dalle formazioni giovanili di ognuno dei singoli membri della band fino ad oggi.
C’è una curiosa particolarità che accomuna tutte le stanze della mostra: in ognuna è presente una classica cabina telefonica inglese, con all’interno ritagli di giornali, foto, copertine di altri album, che stanno a rappresentare cosa succedeva in quello stesso periodo “intorno” ai Pink Floyd.

Usciti dal periodo degli esordi entriamo nella prima “vera” sezione della mostra, quella dedicata ai primi album ed al periodo psichedelico della band e ovviamente nella prima bacheca non potevano mancare le foto di Pinkney “Pink” Anderson e Floyd Council, bluesman dai cui nomi Syd Barrett ebbe l’idea per il nome della band. Nelle vetrine trovano posto foto d’epoca della band, i primi singoli (Arnold Layne, Apples and oranges), il proiettore Rank Aldis Tutor usato da Peter Wynne Wilson nel 1966-1967 e una fantastica replica della Fender Esquire “specchiata” di Syd Barrett.
Arriviamo davanti la vetrina di A Saucerful of Secrets e oltre ai vari manifesti di concerti troviamo lo storico Azimuth Co-Ordinator, che serviva per far girare il suono all’interno del locale, una sorta di antesignano del futuro audio surround. Ci sono inoltre diversi poster di concerti, abiti di scena di Nick Mason, una tastiera di Richard Wright ed un basso appartenuto a Roger Waters. Molto particolare una lettera originale di Gilmour indirizzata alla famiglia nella quale li informa di essere entrato a far parte della band e invita i genitori a non preoccuparsi nè per quello che si dice sul loro conto (riferendosi probabilmente alle droghe) nè della pronuncia sbagliata che alcuni giornalisti hanno fatto del suo cognome.
Su una parete della sala troviamo, retroillumata, una riproduzione enorme della copertina di Ummagumma che, grazie ad un gioco di specchi posizionati su entrambi i lati, amplifica ancora di più il gioco di “picture in picture” dato dall’immagine.
Continuando a spirale all’interno di questa prima sala troviamo una parete dedicata completamente ai film per i quali la band ha scritto la colonna sonora, e quindi troviamo Tonite let’s all make love in London e The committee del 1968, More del 1969, Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni del 1970 (con uno schermo che proietta la fantastica scena dell’esplosione) e La vallée del 1972, da cui è stato tratto l’album Obscured by clouds.
L’ultimo mattoncino di questo periodo è Atom Heart Mother, album del 1971, ed oltre alla storica copertina con la mucca e le varianti grafiche delle successive riedizioni ci sono un altro basso di Waters ed una Fender Statocaster di Gilmour, oltre allo spartito originale scritto da Ron Geesin per la parte orchestrale della title-track.
In questa mostra bisogna stare attenti ai minimi dettagli e non guardare solamente davanti a sè, ma anche… sopra!
Sì, perchè appese al soffitto ci sono tantissime cose estremamente interessanti: repliche di aerei che venivano usati nei primi concerti, il famoso “petalo” riflettente che campeggiava sul palco nei primi anni e che creava i giochi di luce, perfino la bicicletta originale di Syd Barrett.

Proseguiamo in questo viaggio nella storia ed iniziamo ad andare incontro al successo commerciale della band: è il momento del 1972 e di Meddle e dello storico Live at Pompeii. Troviamo quindi una chitarra pedal steel di Gilmour più effetti vari, le bacchette della batteria di Nick Mason, fotografie del periodo, una delle casse della Wem che facevano da sfondo al concerto nell’anfiteatro e altre memorabilia del periodo.

E’ il momento del boom e di The Dark Side of the Moon, e una scritta sulla parete ci ricorda l’enorme successo di questo album: 45 milioni di copie vendute, 7000 copie a settimana vendute ancora oggi, oltre 17 anni di permanenza nella classifica di Billboard top 200.
Molti i cimeli interessanti relativi al disco: dal lucido del disegno di Storm Thorgerson con le indicazioni per la stampa della copertina ad un programma per il tour del 1972, quando l’album veniva eseguito integralmente nei live e si chiamva Eclipse. Da annotare anche una lettera di un astonauta che nel 2003 ha portato sulla stazione spaziale una copia del disco.

Dopo aver attraversato una stanza buia dove troviamo un ologramma che riproduce la copertina di Dark side che ruota continuamente su se stessa insieme i fasci di luce, entriamo in museo nel museo: un’enorme salone dove troviamo esposta la strumentazione originale della band, effetti per chitarra e basso, sintetizzatori, batterie e chi più ne ha più ne metta.
Su tutti spiccano alcuni pezzi leggendari: la batteria di Mason decorata con l’onda di Hokusai, la mitica Black Strat di Gilmour, diverse tastiere di Wright e alcuni bassi di Waters. Su tutti campeggia il gong decorato coi martelli di The Wall.
C’è anche uno spazio “ludico”: ci sono infatti tre postazioni con un piccolo mixer dove ognuno si può cimentare nel proprio mix di Money. Si può scegliere infatti tra i vari livelli di volume di due tracce di chitarra, basso, batteria, tastiere, sax, voci, effetti sonori.

Proseguendo troviamo un’altra sala dedicata completamente a Wish you were here e, a differenza del resto dell’esposizione dove il colore di sfondo è il nero, qui è il bianco a farla da padrona, esattamente come il colore di sfondo della copertina dell’album.
Molto interessanti i contributi di questa sezione: da una galleria di vari scatti tra cui fu scelto quello per la copertina ad un’intervista allo stuntman che si fece dare fuoco per la realizzazione dell’immagine. Troviamo riprodotte anche molte delle foto che hanno fatto parte del progetto grafico dell’album, dal tuffatore all’uomo che vende l’anima nel deserto, fino al velo rosso che vola tra le campagne del Norfolk, mentre sul pavimento calpestiamo un’enorme riproduzione dell’adesivo che era apposto sul contenitore in plastica nera della prima edizione dell’album.
Tra i cimeli della band spiccano soprattutto due chicche: un manoscritto di Waters con una prima stesura del testo di Have a cigar ed una foto inedita di Syd Barrett nella sua famosa “apparizione” agli Abbey Road Studios il 5 giugno 1975, durante la lavorazione del disco.

Usciti da questa stanza ci troviamo in un altro ambiente che potremmo definire di “miscellanea”: ci accoglie una riproduzione della storica maglietta indossata da Johnny Rotten dei Sex Pistols con scritto “I hate Pink Floyd”, mentre su un’altra parete troviamo una prima riproduzione in piccolo del famoso schermo circolare che campeggiava dietro la band durante i concerti in cui è proiettata l’animazione di Ian Emes che accompagnava l’esecuzione di One of these days.

Ma l’ambiente che più di tutti colpisce e stupisce, per magnificenza e dimensioni, è quello dedicato al periodo 1977-1981. Ad accoglierci un’enorme riproduzione della Battersea Power Station, protagonista della copertina di Animals, all’interno della quale possiamo trovare foto e video che documentano i lavori per la realizzazione del famoso scatto di copertina, chitarre utilizzate nel tour, oltre a vari poster di concerti, mentre appesi al soffitto ci sono alcuni gonfiabili della Nuclear family che venivano utilizzati durante il tour del 1977.
Esattamente di fronte alla riproduzione della fabbrica troviamo un enorme muro di mattoni a simboleggiare The Wall, e alcuni dei protagonisti dell’album: il pupazzo di Pink, l’enorme gonfiabile del maestro, quello della moglie (entrambi creati dal Gerald Scarfe), e le maschere usate nel tour 80-81 che riproducevano fedelmente i volti di Gilmour, Waters, Mason e Wright e con cui i musicisti della surrogate band eseguivano In the flesh?.
Gustosissime le chicche, tra cui disegni originali di Waters per i personaggi dell’album e tanti testi manoscritti con le prime stesure dei testi di Another brick in the wall e Is there anybody out there?, con testi diversi rispetto a quelli delle versioni definitive.
Appesi al soffitto, sopra la testa dei visitatori, il maiale gonfiabile e la riproduzione dello Stukas che si schiantava sul palco all’inizio del concerto del tour di The Wall.
Da una breccia nel muro possiamo vedere un video inedito dagli spettacoli di Londra del 1981 in cui la band esegue The happiest days of our lives (e chissà che magari un giorno non esca finalmente un DVD con quello storico concerto), mentre poco più in là è riprodotta la stanza d’albergo che si apriva a ponte levatoio dal muro e dalla quale durante i live Roger cantava Nobody home.
Nell’ultima parte di questa sala c’è una piccola sezione dedicata a The Final Cut: la riproduzione dell’immagine del retro di copertina, che vede il soldato con un coltello piantato nella schiena, in piedi in un campo di grano e con una bobina cinematografica sotto il braccio. Davvero minima la sezione dedicata all’ultimo disco con Waters, forse a causa del difficile periodo che stava vivendo la band, ma anche perchè oltre alla pubblicazione dell’album ci fu ben poco (niente tour, niente promozione).

Si cambia ancora ambiente e si arriva ai “nuovi” Pink Floyd, quelli senza Roger Waters e votati totalmente alla spettacolarità.
Ad annunciare il nuovo corso troviamo un manifesto pubblicitario che conferma le indiscrezioni di un nuovo album e un nuovo tour della band, e una volta entrati nella nuova stanza troviamo diversi fogli con le prime versioni dei testi dei brani di A momentary lapse of reason battuti a macchina e con diverse correzioni a penna a margine.
I “contenitori” degli oggetti di questo periodo sono riproduzioni dei letti, protagonisti dell’immagine di copertina del disco, che ci mostrano un paio di chitarre che Gilmour ha usato per il tour 87-89, mentre appesi alle pareti ci sono diversi manifesti di concerti, tra cui quello storico di Venezia del 15 luglio 1989. Riguardo a questo concerto e alla sua logistica inedita imposta dalle particolari condizioni di realizzazione, molto interessante è un progetto di Mark Fisher con tutti i dettagli per il palco ed il backstage, con l’indicazione precisa di ogni dettaglio, per ottimizzare al massimo il poco spazio a disposizione sulla mega-zattera ormeggiata in laguna.
In fondo alla sala un altro letto su cui sono seduti due uomini che indossano le giacche con sopra cucite le lampadine, come nella copertina di Delicate Sound of Thunder e, sullo sfondo, un altro schermo circolare trasmette il videoclip di Learning to fly.

Si cambia sala e si entra in quella che è l’ultima celebrazione della grandezza dei Pink Floyd, con il materiale riferito a The Division Bell e al relativo tour. Ci sono addirittura le due enormi sculture metalliche ideate da Storm Thorgerson e realizzate da Aden Haynes e John Robertson che sono state utilizzate per la copertina del disco.
Tutto intorno è una celebrazione del tour del 1994, tra modellino 3D del palco, i petali della gigantesca palla a spicchi che si apriva sul solo finale di Comfortably numb, un simpatico decalogo con i comandamenti del tour, e uno schermo che trasmette Take it back tratta dal dvd Pulse. E proprio riferito a questo album live troviamo le sculture di due grandi occhi che furono esposti durante la presentazione alla stampa del doppio album dal vivo, nel 1995.

Si esce da questa enorme sala e si entra in un piccolo corridoio dedicato a The Endless River, ultimo disco della band, pubblicato nel 2014 come tributo a Richard Wright, morto nel 2008.
Siccome è poco il materiale relativo all’album a causa dell’ovvia mancanza di un tour e di promozione ci sono solo delle immagini relativi ai lavori della copertina, una scultura che accomuna quest’ultimo album a The Division bell, essendo tratto dalle stesse sessioni di registrazione, e due schermi, uno con il videoclip di Louder than words, e l’altro con un’intervista a Gilmour sulla lavorazione del disco.
L’ultima foto della mostra è, simbolicamente, un’immagine inedita di Richard Wright sulla sua barca Evrika.

A questo punto un cartello ci indica di toglierci le cuffie perchè dobbiamo entrare in un altro ambiente, l’ultimo, per un degno commiato dalla mostra: ci troviamo in una stanza quadrata sovrastata da quattro pannelli che seguono tutto il perimetro e che è “arredata” da decine di diffusori audio, luci, fumi, laser e tutto quello che rientra pienamente nell’esperienza visiva dei Floyd.
Sugli enormi schermi ci sono due proiezioni, in loop, che stanno a significare la chisura di un cerchio, in quanto rappresentano la prima e l’ultima cosa fatta dai Pink Floyd: prima il videoclip di Arnold Layne e per finire la proiezione (in multi-cam) di Comfortably numb direttamente dal Live8 del 2 luglio 2005 a Londra. Un tripudio audio-visivo con un suono perfetto e giochi di luce da live, come se fossimo davvero lì in mezzo.
Non c’era assolutamente modo migliore per chiudere in bellezza e quando usciamo dall’ultima porta e guardiamo l’orologio, sono passate quasi 4 ore e nemmeno ce ne siamo accorti.

Da annotare anche, all’uscita dall’esibizione, un nutrito shop di gadget floydiani. Praticamente impossibile resistere alla tentazione di tenere il portafogli in tasca, fosse anche solamente per portarsi a casa il bellissimo catalogo della mostra, con copertina rigida e immagine lenticolare, per 35 sterline.

Fan dei Floyd (ma non solo), se non siete ancora stati a vedere la mostra, correte a Londra!
Si parla di future “trasferte” dell’esibizione al di fuori del Regno Unito nei prossimi dieci anni (le voci più insistenti sono sulla possibilità che la prossima tappa sia a Dortmund nel 2018), ma è meglio non correre rischi, perchè questa mostra non va persa per nessuna ragione al mondo.

Qui sotto una galleria di immagini a cura di Dario Improda e Andrea Giovannetti.

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