Enrico Ruggeri: «Fare punk a 60 anni? Ho più rabbia oggi di 40 anni fa»

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Enrico Ruggeri
Foto di Riccardo Ambrosio

È il momento del commiato per i Decibel, gruppo – simbolo del punk made in Italy, che quest’anno ha deciso di riunirsi con un disco e un tour di ben 40 date. Ora, i due appuntamenti conclusivi: domani, 24 ottobre, a Le Roi di Torino e il 6 novembre al Fabrique di Milano. Questo e altro nella nostra intervista a Enrico Ruggeri.

Decibel, 40 anni dopo: un disco e un tour. Un bilancio di questa nuova esperienza?
È stata un’esperienza fantastica, che è andata al di là di ogni aspettativa. Avevamo cominciato timidamente, suonando (per divertirci) nel mio studio. Pensavamo di incidere un disco da dare agli amici. Poi, man mano che ascoltavamo i pezzi, la nostra voglia di puntare sempre più in alto aumentava. Quindi abbiamo pensato di fare quattro-cinque concerti… e ne abbiamo fatti quaranta. È stato un 2017 veramente bello e ricco di sorprese.

Nascete a 20 anni, da “pari”. Poi, strade che si separano, ma solo una carriera proseguita nella musica, la sua. Ritrovandosi 40 anni dopo, queste scelte hanno pesato nelle dinamiche del gruppo?
No, perché in questi anni ci siamo frequentati molto: loro hanno continuato a venire ai miei concerti, abbiamo fatto insieme delle grandi cene. E poi i miei due “compagni” hanno trionfato nella vita e nelle loro attività extramusicali. Ma si sono dati da fare anche nella musica, incidendo musica d’ambiente (sono stati il “Brian Eno” della situazione!). Poi hanno anche realizzato delle mostre. Insomma, hanno fatto quello che amavano fare, quindi da parte loro non c’è mai stato nessun senso di rivalsa. Quando abbiamo ricominciato a lavorare insieme non si è sentito il gap.

Sono in molti a storcere il naso quando si parla di “reunion”, spesso viste come mossa dettata dal marketing più che dalla reale voglia di riprovarci. Qual è stata la spinta per ritrovarvi insieme?
È stata una spinta spontanea. Mi sembra che le operazioni di marketing oggi siano ben altre: situazioni in cui si mettono insieme persone che non c’entrano niente le une con le altre. La musica dei Decibel non è fatta per riempire uno stadio, ma per radunare chi ama rock e new wave. La cosa bella è che si tratta di concerti che raggruppano tutte le generazioni: dai ragazzini ai miei coetanei.

Non c’era il timore che fosse solo un desiderio dettato dalla nostalgia dei tempi che furono, con la paura di sentirsi fuori posto una volta saliti sul palco insieme, con alle spalle un proprio percorso e non più la spregiudicatezza di una vita tutta da costruire?
Ovviamente sì. Però se essere un nostalgico significa salire sul palco e suonare veramente, in un periodo in cui sul palco non suona più nessuno, allora sono orgoglioso di essere un nostalgico. Ormai il termine “concerto” è improprio, perché la gente va a vedere un cantante che cammina su una passerella e legge i testi da un gobbo, mentre partono delle sequenze con batterie e tastiere campionate e si accendono dei led. Quindi la nostra scelta, pur partendo dal passato, in realtà guarda avanti.

Tornando al tour, nel comunicato stampa che mi è stato inviato, per i due concerti conclusivi è stata utilizzata la parola “party”. Ormai si parla sempre più di party, concerti – evento: com’è naturale, il linguaggio si evolve con il tempo. Vi sentite a vostro agio in questa nuova epoca?
Assolutamente sì e i quaranta concerti che abbiamo fatto lo dimostrano. Per fortuna c’è gente che ragiona con la propria testa, che va controcorrente e che ha ancora voglia di andare a un concerto e ascoltare musica vera. Noi saliamo sul palco e suoniamo. E posso dire con orgoglio che abbiamo fatto quaranta concerti uno diverso dall’altro.

Le due date conclusive vedranno delle variazioni nella scaletta rispetto a quanto fatto nei precedenti concerti? Sarebbe divertente se fossero dei “concerti finti”.
Ci saranno altri pezzi, anche se ancora non ho le idee chiare, ma questo è il bello: magari la scaletta la decideremo alle 20.50. Sicuramente diremo al pubblico come vestirsi: sarà interessante vedere davanti a noi delle persone con una linea precisa di abbigliamento.

Come descriverebbe il punk a un ventenne di oggi?
Gli direi che è stata l’ultima grande rivoluzione musicale spontanea avvenuta. È stato un modo di reagire al progressive: musica meravigliosa, ma nella quale tutti dovevano essere bravissimi e freschi di Conservatorio. Il punk era un movimento di base e da cui sono partiti musicisti che hanno fatto strade egregie: Sting, gli Ultravox, David Byrne, i Talking Heads, i Ramones, Patti Smith. Evidentemente il carattere c’era.

E com’è fare punk a 60 anni?
La rabbia è superiore oggi rispetto a quando avevamo 20 anni. E, se rabbia significa reagire in maniera furiosa ma costruttiva alle ingiustizie, oggi c’è molto più bisogno di rabbia che 40 anni fa.

Negli anni ’80 lei rifiutava l’omologazione a sinistra, distinguendosi dalla figura tradizionale del cantautore impegnato. La sua ribellione ai ribelli di allora?
Quelli non erano per nulla ribelli: erano il potere. Che non si esercita solo con il mitra, ma a volte si esercita dalle cattedre. Io andavo in un liceo in cui era vietato nominare D’Annunzio, Nietzsche e nessuno ci spiegava chi fosse Schopenhauer. Scoprii cos’erano le foibe vent’anni anni dopo la fine del liceo.

Oggi cosa vuol dire fare rivoluzione? 
Fare rivoluzione è combattere l’omologazione. Oggi più uno è omologato e più è produttivo per il sistema. La rivoluzione è rifiutare questa logica.

Cosa succederà ai Decibel dopo i due concerti di Torino e Milano?
Nella mia vita ho sempre navigato a vista e continuerò a farlo. Però c’è da dire che, quando ci troviamo, difficilmente andiamo al bar, ma preferiamo andare nel mio studio, dove ci sono degli strumenti e quasi sempre ci mettiamo a suonare. A volte facciamo delle cover, per divertirci, e altre volte buttiamo giù qualcosa di nuovo. Quindi non escludo niente per il futuro.

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