Se il sottoscritto, novello don Rodrigo (leggasi Assessore alla cultura di Milano), avesse ricevuto la proposta della mostra dedicata a Henri de Toulouse-Lautrec aperta fino al 18 febbraio a Palazzo Reale, avrebbe risposto: “non s’ha da fare!”. Perché? Vado a elencare.
1) Ne hanno chiusa a settembre – senza dire di quella torinese finita a marzo – una analoga presso Palazzo Forti a Verona: il bacino di utenza milanese arriva ad almeno i 160 chilometri che separano le due città? Tra istituzioni pubbliche e private non si telefonano prima di mettere in piedi un evento espositivo così impegnativo? Oppure, se proprio si sono antipatici, perché non attivano un gruppo di whatsapp?
2) Ha un tema centrale discutibile: il rapporto con le silografie nipponiche nell’universo artistico-espressivo di HTL è importante ma relativamente marginale, metterlo a confronto solo con quelle è fuorviante. Fa supporre, andreottianamente, che si voglia inseguire l’inatteso successo ottenuto con la mostra dei tre guru Hokusai, Hiroshige, Utamaro.
3) Proporre ben 22 manifesti di HTL con i loro disegni preparatori e le numerose litografie “collaterali” è un’idea interessante solo all’apparenza: di fatto non può che risultare monotematica, noiosa, persino stancante.

Marcelle Lender danza il bolero in “Chilperic” – New York, Collezione Whitney

E ora, visto che, novello don Rodrigo (mai nominato Assessore), sono stato “sconfitto” dalla peste della volontà blockbuster che aleggia “colà dove si puote”, vado a elencare gli esiti di una mostra che non andava fatta.
1) Il titolo fa sorridere: TOULOUSE-LAUTRECIl mondo fuggevole. Già perché il mondo fluttuante (quello cui fanno riferimento le stampe giapponesi esposte insieme alle litografie e ai quadri del maestro di Albi) se l’è giustamente preso – altra telefonata mancata? – la Permanente per il formidabile Kuniyoshi. E, francamente, nulla è meno fuggevole della più antica professione del mondo…
2) Il precedente punto 3 si conferma puntuale. Alla fine del percorso non se ne può proprio più di ballerine e prostitute, pur presentate dal contino Henri (i titoli nobiliari della famiglia risalgono a Carlo Magno: un suo avo partecipò alla liberazione di Gerusalemme e poi fu scomunicato per aver sposato una cugina, un altro sposò una figlia del re Luigi VI e così via) in una veste quotidiana e personale, da interprete acuto del fascino femminile, per nulla “illustratore” né “interprete”.
3) Il confronto con i giapponesi è impietoso: HTL sembra un “dilettante allo sbaraglio”. Le sue acqueforti, i suoi manifesti sono spogli, diretti, immediati, capaci di sottolineare un elemento determinante, quasi precisamente pubblicitario, come infatti confermano le sue affiche. Le silografie (in giapponese ukiyoe) dei vari maestri del Sol Levante sono ricchissime di dettagli, di piani che si sovrappongono, di particolari significanti, accademiche e a volte stucchevoli quanto si vuole, ma sempre disegnate magnificamente, in spazi totalmente riempiti. Quando i primi c’azzeccano con le seconde – il che avviene francamente di rado – sembrano la lettura debole di un allievo poco avvezzo alla pratica.
4) La sala dedicata alle sole shunga, ukiyoe esplicitamente erotiche con rappresentazione esagerata dei vari tipi di amplesso, non ha senso nel percorso, se non per solleticare la pruderie del pubblico. Non raccontano la sacralità presente anche nella più bassa sensualità dell’unione amorosa, come si voleva in Giappone, e men che meno suggeriscono la disincantata, partecipata, umana adesione di HTL a un mondo che pure di quegli amplessi si nutriva.
5) La musica che accompagna in sottofondo le immagini è più fastidiosa che utile. Il can can è banale nel tracciato melodico-ritmico e anche nei locali dove lo si praticava non era ripetuto all’infinito, anzi.

Donna nuda seduta su un divano – Albi, Musée Toulouse-Lautrec

Tutto da buttare quindi? Non proprio, anche se alcune affermazioni alla presentazione dell’evento fanno rabbrividire (“si vendicava della propria deformità trovando quelle nascoste degli altri” come fosse abbietto e rancoroso, “i suoi punti di vista inusuali sono il risultato del suo nanismo” come non conoscesse la “corretta” visuale) a fronte di un personaggio geniale, ironico, di animo nobile, capace di accettare la propria disgrazia genetica, accentuata da una doppia frattura ai femori in età preadolescenziale. Paradossale e singolare in tutto, ricevette, tra gli altri, anche il borghesissimo imprenditore Paul Durand-Ruel, il maggior sostenitore degli impressionisti, corrente in cui lo si inseriva, nel salon di rue des Moulin (quello del celebre quadro presente in mostra) circondato dalle proprie tele e dalle “pensionanti”, mettendolo totalmente in imbarazzo.
HTL era colmo di uno slancio e di una verve vitalistici, che, pur velati di una profonda gravità, gli hanno permesso di cogliere l’allegria e la miseria della Belle époque, con i loro eterni valori di umanità. La sua pennellata e il suo tratto “pazzeschi” per i tempi, la mano scattante e incisiva, di fatto lo fanno il primo degli espressionisti, che punto o pochissimo devono al japonisme più o meno di maniera.
Dunque cosa salvare? L’allestimento innanzitutto, che meglio fa digerire le incongruenze del percorso; le fotografie iniziali, che evidenziano nelle pose in cui si faceva ritrarre il carattere autoironico; le litografie dedicate a Loie Fuller e alla sua danza dei veli, supportate dal relativo filmato d’epoca; le poche tele-capolavoro delle 35 esposte: il ritratto di Emile Bernard, Marcelle Lender danza il bolero in “Chilperic”, la serie di litografie Elles dedicata alla vita quotidiana delle prostitute, Donna nuda seduta su un divano, soprattutto Signora all’entrata di un palco. E ovviamente il manifesto Jane Avril. Jardin de Paris, dedicato all’unica tra le tante “amiche” che ne apprezzasse la pittura, salvo poi disperdere i numerosi quadri ricevuti in dono da Henri tra i suoi sempre nuovi amanti.

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