Viaggio dentro “Songs of Experience” – Il disincanto, l’amore, i figli e la morte

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U2
Foto di Anton Corbijn
“Hear the voice of the Bard! 
Who Present, Past, & Future sees 
Whose ears have heard, 
The Holy Word, 
That walk’d among the ancient trees.”

Già nel 1987 gli U2 tentarono di affrontare i Canti dell’Esperienza di William Blake con il brano Beautiful Ghost/Introduction to Songs of Experience – outtake del capolavoro The Joshua Tree – con Bono che recitava le parole del poeta inglese. Esattamente trent’anni dopo arriva Songs of Experience  – potete leggere qui la nostra recensione dopo i primi ascolti il loro quattordicesimo album in studio e seconda parte del viaggio intrapreso tre anni fa con Songs of Innocence. Finalmente abbiamo tra le mani le due “visioni” dell’animo umano dove la primordiale e viscerale innocenza del bambino viene oscurata dall’esperienza sofferta dell’età adulta.

Da quel 2014 gli U2 hanno attraversato momenti molto delicati: il grave incidente di Bono a Central Park nel 2014 che lo costrinse ad una lunga convalescenza; l’ondata di violenza del terrorismo islamico che colpì Parigi proprio mentre la band era impegnata nella capitale francese con i concerti dell'”iNNOCENCE + eXPERIENCE Tour”; la morte di David Bowie e Leonard Cohen, due riferimenti assoluti per Bono e compagni; l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti d’America, che convinse la band a riportare in vita il The Joshua Tree Tour; ed infine il non meglio specificato “brutto momento” di Bono dello scorso inverno, l’incontro ravvicinato con la morte che ha portato al rinvio di Songs Of Experience per adottare un punto di vista inedito nella stesura dei testi. Il poeta irlandese Brendan Kennelly, infatti, consigliò al cantante di “scrivere come se fossi morto” ed è proprio la morte ad aleggiare continuamente per tutta la durata dell’album, una presenza invisibile che scandisce il tempo dell’esistenza mutando il nostro punto di vista sulle cose quotidiane.


“E’ stata una cosa abbastanza seria da spaventarlo veramente. Ma il luogo dove lo ha condotto, come scrittore, è stato un posto magnifico.”

[The Edge a “Q Magazine”]


L’album si apre con il brano Love Is All We Have Left  che spiazza da subito l’ascoltatore: si viene investiti da un muro di synth che rievoca scenari visionari alla Brian Eno, merito della sapiente mano di Andy Barlow – del duo britannico Lamb – uno dei nove produttori dell’album. La voce di Bono irrompe con solenne compostezza in questo paesaggio onirico e capiamo dalle sue parole che siamo testimoni privilegiati del dialogo tra l’innocenza smarrita e l’esperienza compiuta, “Adesso sei all’altra estremità del telescopio/Sette milioni di stelle nei suoi occhi“, si tratta del bambino perduto che con voce distorta – giunta da chissà quale parte dell’inconscio – si rivolge all’adulto. È l’ultimo punto di contatto tra i due stati dell’anima. Da qui in poi l’innocenza si eclissa in una solitudine lancinante sino all’ultima traccia dell’album.

La seguente Lights of Home prende in prestito il riff portante da My Song 5 delle HAIM – presenti nei cori del brano – e racconta proprio dell’incontro con la morte da parte Bono. Già nel primo verso il cantante toglie ogni dubbio, “Non dovrei essere qui perché dovrei essere morto“, facendo sprofondare il testo in un viaggio quasi dantesco attraverso l’aldilà. Le parole descrivono una profonda crisi identitaria sfociando anche nel dubbio mistico, “Oh Gesù, se sono ancora tuo amico/Cosa diavolo, cosa diavolo hai in serbo per me?“, mettendoci di fronte alla più acuta diffidenza religiosa dai tempi dell’album POP (1997). Il brano richiama sul finale Iris (Hold Me Close), mettendo in relazione la voglia di vivere con la voglia di rivedere le luci di casa ossia raggiungere la madre Iris – morta quando Bono aveva quattordici anni.

You’re The Best Thing About Me è stato il primo singolo ad essere estratto dall’album nel settembre scorso. Si tratta di un brano pop ben costruito dove l’arrangiamento evoca una spensieratezza che non avrebbe sfigurato su Songs Of Innocence; ciò che però la rende un canto dell’esperienza è lo sguardo adulto nel saper riconoscere la grandezza della donna che si ha accanto: “Ho tutto ma mi sento come se fossi il nulla assoluto/Non c’è nulla di rischioso per un uomo determinato a cadere/Tu sei la cosa migliore di me/La cosa migliore mai capitata ad un ragazzo“. Bono la definisce “il ritratto di un idiota“, dove l’idiota ovviamente è lui al cospetto della sua amata.

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Get Out Of Your Own Way è dedicata alle figlie Eve e Jordan e, in maniera più generale, all’universo femminile: si tratta di un’esortazione a combattere per affermare la loro identità all’interno di una società ancora dominata da idee maschiliste, un problema, quest’ultimo, che si è acuito a causa delle dichiarazioni sessiste del presidente Donald Trump. Il cantante ammette che egli può solamente sostenere gli ideali femministi ma che la battaglia spetta principalmente alle donne (e quindi alle figlie), “Potrei cantartelo tutta la notte/Se potessi ti farei stare bene/Niente ti sta fermando tranne quello che hai dentro/Posso aiutarti ma è la tua battaglia“. Il brano è però penalizzato dalla netta somiglianza con Beautiful Day e Always – soprattutto nelle parti di batteria e nel controcanto di Bono – elemento che provoca un fastidioso effetto déjà vu.

Il finale di Get Out Of Your Own Way  si lega all’introduzione della seguente American Soul attraverso le parole di Kendrick Lamar: il rapper americano prende in prestito il Vangelo di Matteo per benedire ironicamente le “virtù” di Trump e introdurci nella prima vera canzone politica dell’album. American Soul, con il suo riff alla Black Keys, è la gemella diretta di Volcano – brano incluso in Songs Of Innocence – dove la voglia di ribellione adolescenziale di quest’ultima viene tramutata nell’invito al popolo americano a lottare per ripristinare l’identità dell’America: una terra promessa per i popoli afflitti del mondo. Bono descrive la sua visione del paese a stelle e strisce, “Non è un posto /Questo è un sogno che appartiene al mondo intero/La faccia del pellegrino/Ha avuto il suo cuore per chiamarla casa“. Il cantante si identifica in un pellegrino venuto dalla lontana Irlanda per ricercare l’anima americana. Bono, come spesso accade nei suoi testi, gioca con le parole, contrapponendo la profonda devozione statunitense in Dio con il rifiuto di accogliere i rifugiati, e per farlo compone la parola RefuJesus. Ancora una volta si affronta la contraddizione americana.

Summer Of Love prosegue la tematica politica portandoci però ad Aleppo, in Siria, in un’ipotetica estate mai veramente sbocciata. Bono paragona la West Coast americana alle coste europee, descrivendo con tono amaro la situazione dell’accoglienza nel Vecchio Continente, “Ho pensato alla Costa Occidentale/Non quella che conoscono tutti /Sono stanco di vivere nell’ombra/Abbiamo un’ultima opportunità prima che la luce svanisca“.  Il brano è uno dei migliori dell’album grazie al suo mood morbido e malinconico, all’arrangiamento è sopraffino e al canto sublime. Da notare la presenza di Lady Gaga nei cori e un testo ancora una volta permeato di sofferenza e speranza, di morte e di vita: “E come fiori che crescono nel cratere di una bomba/Dal nulla, una rosa, cresce.

Red Flag Day possiede la sessione ritmica più potente dell’album e ci porta indietro nel tempo alle sonorità anni ’80. Si tratta dell’ultima canzone a sfondo politico e va a concludere questa sorta di suite in tre parti dedicata ai rifugiati: il testo racconta della traversata attraverso il mare e della paura di morire per rincorrere il sogno della libertà, “Posso sentir tremare il tuo corpo/Ti incontrerò dove le onde si infrangono“.

Songs of Experience
Foto di Anton Corbjin

The Showman (Little More Better)  è un brano scanzonato dalle sonorità puramente beatlesiane che a molti fan farà sicuramente storcere il naso. Ricorda da vicino le composizioni di George Harrison ed è una disamina ironica del ruolo dei cantanti, “Un bambino piange perché è nato per cantare/I cantanti piangono per qualsiasi cosa“, descrivendo anche la contraddizione insita nel mestiere dovendo sperare che i traumi vissuti siano apprezzati dai fan, “Lo showman ti dona la prima fila davanti al suo cuore/Lo showman prega che il suo dolore entri in classifica“. E’ un’esperimento atipico , inedito per la band di Dublino, che riesce a prendersi in giro con spiccata intelligenza e un pizzico di autocritica.

The Little Things That Give You Away  inizia con la stessa solennità elettronica di In The Air Tonight di Phil Collins, facendo immediatamente capire che stiamo per addentrarci in una delle tracce più importanti del disco. Il brano è una vecchia conoscenza per i fan essendo stato eseguito durante i concerti del The Joshua Tree Tour 2017, ma The Little Things That Give You Away, su disco, possiede tutta la maestosità e la tragicità dell’animo umano. La canzone è puro tormento, “A volte non riesco a credere alla mia esistenza/Vedo me stesso dalla distanza/E non riesco a tornarci dentro/A volte l’aria è così angosciosa /Tutti i miei pensieri sono così sconsiderati“, e questa sincerità fa male come un pugno allo stomaco. L’inquietudine di vivere raggiunge vette di poeticità altissime trasmettendo uno smarrimento lancinante dettato dall’impossibilità di poter recuperare il tempo perduto, “E tutta la mia innocenza è morta/A volte mi sveglio alle quattro del mattino/Dove tutta l’oscurità brulica/E mi ricopre di paura“. Il bambino ormai è lontano anni luce, e l’adulto si scopre fragile.

Landlady è il secondo brano dedicato alla moglie Alison. La chitarra dell’introduzione rimanda a Raised By Wolves ma la canzone sprofonda in una ballad eterea, una vera e propria lettera d’ammirazione per la persona amata. “Ogni onda che mi ha spezzato/Ogni canzone che mi ha scritto/Ogni alba che mi ha svegliato/Mi ha portato a casa da te, vedi“. Il testo richiama Every Breaking Wave e anche qui l’atmosfera onirica la fa da padrona donando sensazioni contrastanti che giocano sull’equilibrio sottile tra un amore ancora solido e la sua brusca interruzione a causa di un avvenimento improvviso. In un certo senso siamo di fronte ad una lettera d’addio piena di profonda gratitudine. Musicalmente è forse la più debole delle precedenti quattro canzoni dando la sensazione che passi in sordina senza un guizzo memorabile.

The Blackout è il brano più dark di Songs Of Experience con un inizio che ricorda il brano Even Better Than The Real Thing nella versione live del 360° Tour. La versione su disco possiede il miglior Adam Clayton degli ultimi anni e l’arrangiamento ricercato dona alla canzone un mood tagliente. Quello che personalmente ritengo un difetto è il ritornello, a mio avviso sin troppo lineare, che rompe la tensione eccentrica delle strofe. Il testo è un’aspra critica all’attuale situazione politica mondiale, rea di star facendo sprofondare il globo nella paura per l’immediato futuro, “Le statue cadono /La democrazia è stramazzata sulla sua schiena, Jack/Avevamo tutto /E quello che avevamo non tornerà indietro“.

Songs of Experience
Foto di Anton Corbijn

Love Is Bigger Than Anything In Its Way  molto probabilmente diverrà uno dei singoli dell’album. Il brano è uno dei più evocativi e ha un ritornello che richiama fortemente le melodie dei One Republic. Il suo sound è chiaramente di stampo pop ma riesce a non cadere mai nei cliché del genere – a parte in qualche passaggio sin troppo sentimentale. La canzone è dedicata ai figli del cantante ma il testo ci svela un retroscena autobiografico, come se Bono rivedesse se stesso attraverso gli occhi dei suoi ragazzi: “Troppo giovane per poter essere le parole della tua stessa canzone/So che la rabbia in te è forte/Scrivi un mondo al quale possiamo appartenere/L’un l’altro e cantalo come nessun altro“. E’ la raccomandazione di un padre a non perdere mai di vista l’amore,  l’unica cosa che potrà salvarli durante la loro vita. Esattamente quello che capitò a lui agli inizi della sua carriera.

13 (There Is a Light) è semplicemente la miglior chiusura di un album degli U2 dai tempi di POP. Il brano è l’esatto opposto di Song For Someone la canzone d’amore – contenuta in Songs Of Innocence – che racconta dell’innamoramento tra Bono e Alison. In Songs Of Experience essa si tramuta in un anthem dai toni cupi, un gospel solitario dove l’adulto si rivolge al bambino perduto. E’ un testamento pronunciato a bassa voce, una preghiera funebre dal sapore malinconico, “E il mondo arriva/rubando i bambini dalla tua stanza/Metti in guardia la tua innocenza/Dall’allucinazione/E sappi che l’oscurità si raduna sempre attorno alla luce“. Ma è anche una confessione a cuore aperto di Bono, dal momento che la sua armatura da rockstar è caduta permettendoci di vedere attraverso la sua pelle, attraverso le sue ossa, dentro ciò che lo rende umano: l’anima di un uomo che è consapevole di aver perduto la luce dell’innocenza, “Questa è una canzone /Una canzone per qualcuno/Qualcuno come me“. Un mea culpa a tutti gli effetti.

Tra le bonus track troviamo l’inedita Book of Your Heart che esattamente come The Crystal Ballroom e Lucifer’s Hands – le bonus track di Songs of Innocence – sembra gettare il seme per quello che potrà essere il collegamento con la (eventuale) terza parte del progetto, quel Songs Of Ascent annunciato nel lontano 2009 ma mai pubblicato. Il brano ha un testo enigmatico dai toni quasi freddi e distaccati. Le tematiche si discostano dalle precedenti e concetti come l’appartenenza amorosa e l’esistenza terrena vengono destrutturati slanciandosi verso uno stato più spirituale.

Songs Of Experience è il perfetto contraltare di Songs Of Innocence. Il tempo intercorso tra le due pubblicazioni non ha intaccato il progetto originale, anzi, ha arricchito il concept dando davvero l’impressione che la band sia cresciuta da quando compose le canzoni dell’innocenza. Musicalmente è un prodotto perfetto grazie al lavoro certosino dei produttori che, pur dovendosi alternare durante le fasi di registrazione, sono riusciti a non dare mai l’impressione di essere di fronte a brani sovraprodotti o eccessivamente pomposi.

La fragilità, la paura della morte, l’amore, i figli e il costante desiderio di tramandare i propri insegnamenti sono la forza di questo lavoro. Alla band va il plauso di aver saputo trasmettere tutto ciò attraverso una sincerità senza precedenti, una sincerità che a tratti appare crudele proprio come le poesie di Blake. E la copertina del disco suggella perfettamente tutto ciò: Elijah – figlio di Bono – tiene per mano Sian – figlia di The Edge – prendendo il posto dei rispettivi padri. Tocca a loro, alle nuove generazioni, combattere per il mondo che vogliono vivere.

Posso aiutarti ma è la tua battaglia“, direbbe qualsiasi genitore ai figli che si affacciano all’età dell’esperienza, e anche gli U2 sentono la necessità di dirlo. E’ la vita.

Gabriel Cillepi
Facebook – Gabriel Cillepi
Twitter – @gabrielthefly

4 COMMENTI

  1. Complimenti per l’analisi profonda e intelligente che peraltro condivido appieno. Ai tanti detrattori aprioristici di questa band auguro di ritrovare l’equilibrio e la capacita’ di giudizio: si potra’ condividire l’idea che siamo di fronte ad una band che e’ stata straordinaria e inarrivabile e che per quanto meno vitale e talentuosa, e’ ancora capace di parlare al cuore e alla mente della gente. Dicendo cose non banali, sensate ed importanti. Con la voce di Bono e la chiitarra di Edge. E scusate se e’ poco

    • Totalmente d’accordo con te Antonella. Grazie per i complimenti intanto. Riteniamo che gli U2 abbiano veramente realizzato un disco eccelso, sotto tutti i punti di vista, dal sound agli arrangiamenti, ai testi, e soprattutto al concept che è parte integrante dell’album. Per quel che riguarda i detrattori degli U2 credo che non esista migliore risposta che quella loro: aprire l’ombrello, ignorare.. l’indifferenza fa ancora più male. La maggior parte delle recensioni negative sono state fatte da personaggi che non amano gli U2 e Bono, tirando fuori argomenti che poco hanno a che fare con l’album, a testimonianza di quanto possa risultare difficile parlare male di Songs of Experience

      • Quello che mi intristisce e’ l’accanimento personale contro Bono, l’insulto gratuito senza rispetto. Non credo davvero che si possa parlare malissimo di questo disco anche se posso ammettere che a qualcuno possa non entusiasmare.
        Io pero” sul finale di ” The little things” non riesco piu’ a parlare e mi riscopro a piangere tutte ke volte pensando alle tante piccole cose che mi hanno tradito e a quelle che non ho piu’. La maestosita’ profonda e lancinantre di quel finale lascia senza parole. Come del resto la purezza della voce di Bono nella prima traccia.

  2. Ero a Roma a luglio 2017….l’ultima canzone mi ha fatto piangere dall’emozione e vi assicuro che non è facile….. la voce di Bono per metà canzone e poi la chitarra che entra in un salendo continuo, una meraviglia live indimenticabile….come milano, verona, reggio emilia, ecc…. Comunque grande album, lo ascolto ogni giorni dall’uscita e mi mancano ancora molte sfumature da scoprire…
    Sono un grande gruppo, ma prima ancora delle grandi persone, che si sono confidate anche troppo secondo me con questi ultimi due album.

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