Valerio Bruner, cinque passi lungo il fiume

Il leader dei Dirty Wheels esordisce con un ep che mescola uno scarno folk rock a spunti blue collar e atmosfere strazianti da songwriter di frontiera. Il poliedrico artista partenopeo traduce in forma musicale alcuni racconti tratti da un suo libro e già trasformati in un apprezzato spettacolo teatrale

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Valerio Bruner (foto di Federica Rubino)

Personaggio atipico, ma non certo strambo. Poliedrico e multiforme, mai fumoso o confusionario. Forse indeciso, quello sì, nel destreggiarsi una volta per tutte tra i molteplici fronti artistici lungo i quali si muove. E dove, obbiettivamente, pare trovarsi parecchio a suo agio sempre e comunque.

Attore, autore teatrale, musicista, scrittore, poeta, songwriter, band leader, viaggiatore e acuto osservatore. Per ora, intanto, ci fermiamo qui e focalizziamo la nostra attenzione soprattutto sulla figura di Valerio Bruner in qualità di cantautore folk rock (definizione comunque vaga e, per ora, superficiale) che cerca di aggirare le etichette e gli abbinamenti stilistici, aggiungendo ad atmosfere scarne e parole crude chiari e polverosi spunti di frontiera.

Già, perché la pubblicazione di questo Down the river riconduce tutto sul fronte prettamente acustico e sonoro. Fermo restando che lavori di tale genere (e anche quelli che, ovviamente, lo hanno più o meno direttamente ispirato…) garantiscono profonde e mai trascurabili influenze culturali, letterarie e poetiche che vanno ben oltre il ben più accattivante e remunerativo bacino mainstream.

La copertina dell’album

Ciò premesso, ci troviamo a fare i conti con un cantautorato urbano crudo e piuttosto blue collar, privo di esplicite influenze black e alla fine ben più Pasley Underground (e dunque losangeliano) che East Coast (e dunque newjerseyano/new yorkese). Il tutto benché il titolo affondi chiaramente le sue radici in atmosfere rurali nelle quali le metafore con la natura, soprattutto quando cruda e ostile come l’uggiosa e plumbea art work partorita da Ivano Bruner, rivestono un ruolo importante. Del resto, quando si parla di fiumi, non cè che l’imbarazzo della scelta: da zio Nello fino a babbo Bruce e cugino Mellencamp, passando attraverso i nonni CCR, Man in Black e Stones per arrivare fino a Al Green, Billy Joel, Steve Winwood, Leonard Cohen, Loggins & MessinaDon Henley o Hank Williams Jr (solo per citare i primi nomi che mi vengono in mente…)

Va anche aggiunto che l’album viene accreditato a Valerio Bruner (voce, chitarre acustiche e armonica) ‘insieme’ ai Dirty Wheels che tuttavia, nel caso specifico finiscono per consistere nell’essenzialità garantita dallo stesso padrone di casa e autore, affiancato dalle chitarre elettriche di Andrea Russo. Un ep registrato in presa diretta e senza troppi fronzoli al BlueBellRecording Studio di Castellammare di Stabia ma che, per la trasposizione live, vedrà anche l’arricchimento strumentale garantito dal basso di Pier Luigi Santoro,  dalla seconda sei corde elettrica di Mario Scognamiglio e dal drumming di Mario Sosio. Un combo comunque versatile e in grado di allargarsi o restringersi alla bisogna a seconda dei palcoscenici disponibili.

Valerio Bruner and the Dirty Wheels sul palco (foto di Federica Rubino)

Sia come sia, la genesi di questo mini album arriva dalla preistoria di Bruner, ossia dai giorni in cui iniziava a comporre le sue prime canzoni grazie alla sua passione teatrale. In un primo momento “come storie da portare in scena – ricorda – Poi, e sempre più prepotentemente, come racconti ai quali sentivo il bisogno di aggiungere una melodia. Mi ha sempre affascinato la componente più scarna e viscerale della musica, quella che ha animato album come Nebraska di Bruce Springsteen o le American Recordings di Johnny Cash: voce, chitarra e una storia da raccontare. Immediata, semplice, diretta”.

Dai primi brani, poi divenuti la colonna sonora di Nonsense a nord del Tamigi (spettacolo portato in scena con la sua compagnia Te.Co. Teatro di Contrabbando,  vincitrice nel 2015 della rassegna Stazioni d’Emergenza indetta dal Teatro d’Innovazione Galleria Toledo di Napoli), fino al grande salto nelle vesti di songwriter, il passaggio è graduale. L’approdo alla sala di incisione, invece, deriva alla riunione con il vecchio amico Russo, mentre le canzoni acquistano “un maggior respiro e una più ampia melodia, grazie a un modo di suonare la chitarra elettrica unico nel suo genere. Come si dice in gergo, ‘inchiodano i pezzi’ donando loro un’identità più delineata”.

Ecco dunque che, serata dopo serata, teatrino dopo club, pub dopo festa paesana, l’originario reading musicale Down the river (portato avanti insieme all’attrice Chiara Vitiello che drammatizza magistralmente le letture tratte da None but the braveUn viaggio immaginario nell’America di Bruce Springsteen trasformato in libro dallo stesso Bruner) si trasforma in un possibile album, regalando anche il nome ai Dirty Wheels dal titolo di uno dei 22 racconti in esso contenuti.

“In questi pezzi ho raccolto storie e personaggi incontrati durante i miei viaggi. Nella cultura dei Nativi Americani – spiega il Nostro, origini svizzere, via Germania e Stati Uniti, prima di approdare atipicamente in Campania da un paio di generazioni – il fiume è infatti simbolo di vita, specchio delle nostre gioie e dei nostri dolori, di desideri e di rimpianti, di vittorie e di sconfitte. Nelle acque limpide vediamo riflesso il nostro Io, ciò che siamo, da dove veniamo e dove vogliamo andare. E proprio sulla riva del fiume inizia questo viaggio”.

Valerio Bruner (foto di Federica Rubino)

Questo lavoro autoprodotto, auto distribuito e interamente composto da Valerio Bruner si apre dunque con la chitarra lievemente percossa come un battito cardiaco e la voce cruda dell’autore per lanciare The night was dark and the moon was bright. Brano più lungo del lavoro con i suoi 4’07”, costituisce anche una dichiarazione d’intenti che, di colpo, allarga le sonorità grazie alle chitarre elettriche e battendo percorsi simili a quelli dei premiatissimi pesaresi Cheap Wine, pur arrivando da influenze diverse e non puntando sulla coesione di gruppo quanto, piuttosto, sull’espressività cantautorale del protagonista. Assente la sezione ritmica e secondo il coraggioso principio della “one, two, three… one take and go…”, i due fanno dunque di necessità virtù senza mai inciampare e lanciando anzi acide stilettate a corredo dei testi.

La successive Gone by the wind introduce anche una sobria armonica a bocca, mentre Bruner conferma ancora una volta che i suoi pezzi vogliono essere “diretti, immediati e affondano le radici nei miei numerosi viaggi all’estero. E, in particolare, in un lungo soggiorno nella metropoli londinese”. Passaggi da hobo ma poco sgualciti e polverosi; più colti e lucidi, potremmo aggiungere. Pensando anche e soprattutto a quella Hey bartender che rialza i toni e i ritmi, continuando però a seguire i protagonisti che, alla fine, risultano essere “anime perdute per una vita e una storia di condanna e redenzione. Fantasmi metropolitani che si muovono lungo le blue highways dell’animo umano alla ricerca di una seconda opportunità. Storie di emarginati, reietti e dimenticati, ma carichi di una poesia che è carne, sangue, vita. La musica, di rimando, è cruda, urgente, quasi a scandire il ritmo di queste vite ai margini dell’oscurità”. Il barista come confessore al quale rivolgersi, ma anche come specchio con il quale confrontarsi. In attesa che Free fallin’ (nulla a che vedere, ovviamente, con la composizione di fine anni Ottanta targata Tom Petty buonanima, insieme a Jeff Lynne) riporti tutto su binari più classici, ma sempre essenziali, con un’amalgama che garantisce anche in questo caso un groove incalzante e drammatico. Ben assecondando le atmosfere evocate dai versi. Un pezzo che full band potrà raggiungere ulteriori apici espressivi e facilmente potrà anche ottenere un convinto ‘call & response’ con il pubblico in occasione dei bis. Il commiato è affidato alla title track e alla sua liricità che si assesta tra speranza e rassegnazione come una preghiera o una ninna nanna per adulti.

Vogliate gradire!

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