Annunciati da una nevicata mai vista, una mattina cominciarono arrivi dal mare di gente ricchissima e luminosa, con bimbi e vecchi avvolti in vesti pregiate, su speciali imbarcazioni lussuosamente attrezzate.

   Avvistate al largo del canale di Sicilia in piena notte, tanto le motovedette di Malta quanto quelle siciliane si erano mosse per tempo, ma una volta giunti in prossimità delle cattedrali galleggianti, e vistele sfilare quiete e silenziose sul mare più cupo e agitato, i piroscafi se ne rimasero a distanza di sicurezza, scortandole a fatica sino alle coste dell’Italia.

Tutte le luci del porto vennero accese, e l’alba dicembrina, puntellata da una fioccata fuori dalla norma, era uno splendore mai visto, con decine di riflettori puntati sugli attracchi ai quali lentissimi e senza un sibilo facevano lieve accostamento tre bastimenti argentati.

   Il Primo Ministro italiano, svegliato in albergo alle 3 del mattino, aveva dovuto parlarne col Presidente, il quale gli aveva intimato di presentarsi sull’isola mettendo da parte qualunque altra cosa.

La costa intera sembrava raggiunta da una benedizione celeste, mentre la neve gentilmente friggeva sfaldandosi sulla superficie del mare.

I medici delle numerose ambulanze, gli agenti di polizia, i portuali e i tanti addetti all’accoglienza, sfidarono le condizioni eccezionali del tempo pur di non perdere l’istante dello sbarco.

   Qualche minuto dopo che i bastimenti ebbero attraccato, un profumo speciale e finissimo come di mandorla parve esalare dalle carene che baciarono le acque sporche e agitate del porto, e dopo una lunga attesa i primi profughi comparvero in cima alle scalette e dopo avere sostato sulle cime altissime delle prore e respirato l’ossigeno benefico dell’isola italiana, cominciarono ordinatamente a scendere.  L’anziano e distinto capogruppo che pareva guidare la spedizione, anticipato di pochi passi dalla sua fine compagna cominciarono a discendere le scalette

Sindaco e Primo Ministro, seguiti da un codazzo di assistenti e addetti, da giornalisti e da agenti, da volontari e da tecnici e traduttori e inevitabili infiltrati, si apprestarono a portare i saluti alle eccellenze che così inaspettatamente avevano scelto di eleggere l’isola come meta delle loro peregrinazioni. Il Sindaco volle sbilanciarsi tentando un goffo abbraccio verso l’anziano che, colto di sorpresa, lo ricambiò solo in parte, e nell’imbarazzo che accompagna ogni incontro cerimonioso in cui ognuno recita un ruolo per l’occasione, il ricco signore venuto dal mare pronunciò con voce gutturale parole pacate in una lingua ignota. Sebbene nessuno capisse ciò che l’uomo stava dicendo, fu subito chiaro che fossero le parole cordiali e persino commosse di chi si senta finalmente in salvo.

  La delegazione sconosciuta godette degli onori di tutte le maestranze, si rese necessario organizzare le sistemazioni in strutture alberghiere che fossero all’altezza degli ospiti sopravvenuti. Gli incaricati e i volontari dedicati alla prima accoglienza non ci misero molto a registrare le perfette condizioni di salute dei profughi, comprese quelle dei più piccoli che, ignari del trambusto imperante a loro intorno, sommessamente dormivano sonni dolcissimi in sontuosi giacigli portatili e termoisolati.

Le condizioni dei centri di accoglienza risultando alquanto inadatte all’ospitalità, tutti gli alberghi di qualità furono prontamente ingaggiati come rifugio dignitoso dei nuovi arrivati, e non ve ne furono che volessero in alcun modo sottrarsi al privilegio dell’ospitalità. Nel trambusto di spostamenti, di decine di ambulanze che facevano dietrofront per tornare vuote agli ospedali e camionette di polizia che si apprestavano a scortare i grandi pullman contenenti le centinaia e centinaia di distinti avventori verso mete di riposo, gli inviati della stampa e delle numerose emittenti televisive e radiofoniche si contendevano posizioni di favore per poter documentare l’eccezionale invasione e, in assenza di informazioni comprensibili, inventando ciascuno una verità diversa.

   La confusione venne a placarsi solo verso la prima metà del pomeriggio, quando tutti i clandestini sembrarono felicemente sistemati o destinati a luoghi sicuri e adeguati al loro lignaggio.

Sull’isola sembrò posarsi una pace nuova, e la neve cessò. Il silenzio nivale prese fin nel più profondo il litorale, e più all’interno campi e colline soavemente glassate dal bianco manto si fecero nuovi. Nessuno ricordava un evento come quello, e il cielo parve infiammarsi.

Già prima di sera le autorità cominciavano a faticare nella gestione delle numerose offerte di aiuto che giungevano da ovunque, e che si vedevano costretti a declinare. Il Parlamento riunito in seduta straordinaria deliberò lo stato di mobilità nazionale volto alla sistemazione dei profughi, e tutte le fazioni si trovarono in un raro accordo circa il fatto che quell’ondata di stranieri dovesse esser gestita nel modo più accogliente e gratificante possibile, come si confaceva ad un Paese evoluto e rispettoso dei bisogni più intimi dell’umanità tutta. Gli esponenti della destra più accesa fecero a gara per manifestare il proprio assenso affinché si facesse presto una legge di accoglienza più adatta alle circostanze speciali, e si resero garanti della propria massima disponibilità verso la maggioranza. Le sinistre, dapprima spiazzate, si videro poi costrette a concordare con gli avversari politici e persino con le correnti interne circa la bellezza di quella larga intesa.

   Fuori dai municipi delle principali città si radunarono folle di individui che chiedevano garanzie per una giusta accoglienza degli stranieri, e così avvenne in nottata nella capitale e fuori dal Palazzo.

   Ma nei giorni a seguire, le autorità cominciarono a provare l’imbarazzo di essere rappresentanti di un Paese non del tutto all’altezza di quella ondata di persone elette. Molti alberghi seppure dignitosi, ma non proprio di livello massimo, mostravano qualche lacuna e i direttori registrarono lamentele per la qualità delle stanze, della biancheria, dei letti, del servizio a tavola e persino dei migliori pasti serviti.

L’imbarazzo iniziale diventò gradualmente un disagio palpabile, e le lamentele si trasformarono in una voce distinta, al punto che nelle poche ore successive alla presa in gestione dei nuovi arrivati, si ebbe la certezza di un malcontento non più celabile. Gli organi di informazione cominciarono così a diffondere la notizia che le strutture alberghiere non fossero all’altezza dei nuovi ospiti, e la cosa, dopo una disperata riunione del direttivo della Protezione Civile, giunse in Parlamento.

I maggiori e più quotati cuochi del Paese presero a fare la spola tra una località e l’altra, inviando ovunque piccole delegazioni di giovani e promettenti stelle della cucina; così con stilisti, parrucchieri, giardinieri e pasticceri, massaggiatori e manicure e baristi e sommelieri, gioiellieri, elettricisti e nutrizionisti, e furono approntati laboratori mobili di design, di falegnameria e di arredamento per apportare modifiche in tempo reale laddove fosse più urgente. Malgrado ciò, si capì presto che non sarebbero bastate le forze per fare fronte a una simile richiesta di lusso.

   Due giorni dopo l’arrivo della popolazione luminosa, il suo capogruppo, vista l’insistenza degli organi di informazione, volle rilasciare delle dichiarazioni, e la cosa in pochi minuti si trasformò in una conferenza-stampa. Un paio tra i più brillanti studiosi di linguistica furono chiamati a presentarsi per tentare di decifrare il più possibile la lingua sconosciuta nella quale con pacatezza il nobile anziano elencava quelli che parevano essere i diritti e le lamentele del suo popolo. Malgrado il fallimento dei due luminari, entrambi concordarono sul fatto che un generale malcontento e una profonda delusione animassero le parole dell’uomo dai capelli diafani. I suoi occhi profondi e scurissimi esprimevano una vena di sfiducia e di rammarico. Al termine della succinta esternazione, replicata in contemporanea dalle maggiori emittenti televisive del pianeta, non vi furono domande, data la triste eloquenza di ciò che veniva comunicato.

 I due esperti concordavano soprattutto su un concetto espresso: la necessità dei nuovi arrivati di trovare accoglienza altrove, o in alternativa fare rientro al proprio luogo d’origine. Questo gelò di più l’uditorio, e i commentatori più arditi iniziarono a fomentare una profonda critica verso il Governo e il Paese tutto, vergognosamente povero e così poco ospitale da non essere all’altezza di una simile epocale occasione. Gruppi della destra più estrema già nel pomeriggio si resero protagonisti di attacchi alle sedi regionali e di piccole sommosse in alcune piazze. Gli abitanti delle case popolari dei quartieri di periferia, visti con sospetto, furono costretti a dotarsi di un servizio di guardia improvvisato dai cittadini più prestanti. Diversi accampamenti di nomadi furono dati alle fiamme.

   Accusati di incitamento alla povertà, i gruppi più democratici del Parlamento subirono numerosi attacchi verbali e cominciarono delle autentiche zuffe, sedate a stento da eroici uscieri e dai pochi rimasti desiderosi di trovare un accordo.

   Entro il mezzogiorno successivo, il Presidente della Repubblica decretò lo stato di allerta generale, e con un discorso breve condotto con voce tremante disse che tutti dovevano rispettare la regola di non uscire di casa, e assicurò che a breve si sarebbero ristabilite la sicurezza e la convivenza sociale. Ma i disordini si moltiplicavano e gli organi di informazione non erano in grado di tenere il passo con gli avvenimenti.

Da ovunque veniva la richiesta di accedere a un livello migliore di società. Si volevano ricchezza, agio e lusso adeguati alle nuove circostanze, si chiedeva che la povertà fosse messa al bando e che tutta la popolazione più abbiente potesse al più presto, come meritato, assurgere ad un rango superiore, per raggiungere i livelli di ricchezza che ci venivano così esplicitamente sbattuti in faccia dai fortunati e infelici nuovi ospiti.

In breve fu il caos.

   In nottata il Presidente ebbe un malore, e fu necessario condurlo in ospedale per un ricovero urgente, ma giunti nell’atrio i suoi uomini si avvidero dell’indigenza in cui versava la struttura, e persino al primo cittadino fu riservata un’accoglienza approssimativa.

Relegato su una lettiga in uno stanzino di servizio, circondato dai suoi due più stretti collaboratori, l’anziano statista capì bene che quella fosse la fine. La fine, la fine, la fine-fine. La fine del suo mandato così come la fine di ogni lotta, se ogni sforzo per condurre un Paese verso un futuro bello si infrangeva contro una simile realtà. Chiudendo gli occhi, nell’aranciato della visione interna alle sue palpebre, si domandò con scrupolo di coscienza ereditato dal padre dove si fosse sbagliato. E il ricordo del padre in quel momento di caduta lenta e inesorabile gli suggerì che il mondo occorre sempre rigenerarlo dalle radici, senza mai credere di averlo salvato. E che non c’è tregua, è una lotta senza termine, un supplizio di Tantalo, una cosa ingiusta e crudele.

   Il più fidato dei suoi assistenti volle comunicargli all’orecchio che “quelli” se ne tornavano da dove erano venuti.

– Presidente, bisbigliò, si attende a minuti il chirurgo, che pare essere bloccato per via di una manifestazione contro i poveri. – Il Presidente annuì, senza dare a vedere la propria disperazione, ma col poco fiato che riusciva ad emettere, chiese solo:

– Ma dove vanno?

– Non è chiaro, Presidente.

– E dove vado, io – sussurrò il moribondo senza avere più cura di tenere per sé una domanda tanto abissale.

– In un bellissimo luogo, gli fece eco l’assistente stringendogli per la prima volta la mano come si fa a un parente. Quello che se ne andava non era infatti più il Presidente, e quegli altri, pure, chissà cos’erano e per quale ragione avessero voluto venire a punirci così sottilmente. – È la stupidità il nostro vero male, – suggerì ancora in uno slancio di commozione, e il morente, che sembrava già in viaggio, fece in tempo ad annuire un’ultima volta.

   L’alba del terzo giorno vide il ritorno dei pullman, e questi sfilarono dalle varie località verso il litorale come rispondendo ad un ordine superiore. La neve che si era dileguata dopo il loro arrivo tornò a fioccare lieve, e nessuno degli anziani ricordava una cosa simile. Il porto divenne nuovamente zeppo di gente e di forze dell’ordine, e le delegazioni del Parlamento, guidate dal Primo Ministro, si precipitarono sull’isola per cercare un disperato dialogo con gli stranieri che i giornali avevano ribattezzato “Quelli”. Ma fu inutile, gli stranieri tornavano alle navi lucenti senza più degnare di un solo sguardo la bellezza brulla dell’inverno pantesco.

  I tre bastimenti carichi di ricchezza umana se ne salparono che non era ancora giorno, e il loro bagliore accese il cielo anzitempo.

Restò la neve, a dedicare di una carezza distribuita in milionesimi tutta la parte sud dell’isola.

In breve le cattedrali furono viste allontanarsi con lo stesso incedere silente col quale erano venute, e i piroscafi che le seguivano parevano al loro confronto scarafaggi marini, scuri oggetti viventi con minuscole antenne accese alle estremità.

   Quando le tre navi ebbero preso il largo, un diffuso sgomento batté la costa italiana. Ciascuno dei presenti, ma persino le personalità più in vista, e poi uno per uno i milioni di persone che assistettero in mondovisione all’abbandono della ricchezza, percepirono l’amarezza di un bene perduto solo per non esserne stati all’altezza, e questo dolore si depositava già da subito come qualcosa destinato a essere ricordato per molto tempo, come quella neve, che mai si era vista fioccare così misteriosa. Intermittente. Come mossa da un interruttore celeste.

La neve scemò e smise del tutto di cadere entro un’ora dalla scomparsa all’orizzonte delle tre visioni marine, e la poca che si era depositata sulla rena e sulle gru, i pontili, le casupole, i magazzini, i cavi, gli alberi, l’erba, i campi, le strade, le colline, si sciolse rapidamente per il bacio col calore di una terra abituata solo a bruciare.

   In seduta straordinaria la mattina seguente il Presidente della Camera, affiancato da quello del Senato, diede ufficialmente la notizia della partenza degli stranieri, e annunciò il lutto per l’improvvisa scomparsa del Presidente.

In aula venne letta da una nipote del defunto la breve lettera che egli aveva iniziato a scrivere prima di essere colto da infarto. E la bimba con le trecce raccolte sul capo e il viso che sbucava rotondo dal candore del suo vestito, ebbe la sua grande occasione leggendo con speciale cantilena parole di cui ignorava il significato:

– Siccome non esistono razze, ma una sola è la stessa per l’uomo, uno solo il dna, – recitò esitando la bimba – chiunque essi siano, sono come noi, carne nostra, e dunque voglio intendere che siano venuti a insegnarci, per rovescio, cosa significhi sentirsi scartati.

   E il Parlamento intero, per una volta sola, una volta almeno, parve unito nel pianto.

 

gianCarlo onoratoMusicista, scrittore e pittore fuori dagli schemi, ex leader di Underground Life. Ha pubblicato i dischi: Il velluto interiore (1996), io sono l’angelo (1998), falene (2004), sangue bianco (2010, Premio Giacosa), ExLive (2014) con Cristiano Godano, quantum (2017), “quantum Edizione Extra” (2018), ha curato la co-direzione artistica del Tributo a Luigi Tenco come fiori in mare Vol. I (2001) e Vol. II, in “Sulle labbra di un altro” (2011), ed i libri: Filosofia dell’Aria (1988), L’Officina dei Gemiti (1992), L'ubbidiente giovinezza (1999), Il più dolce delitto (2007), “ex-semi di musica vivifica” (2013), La formazione dello scrittore” (2015). Ideatore del Seminario del Verbo Musicato, ha centinaia di concerti alle spalle e un disco, un tour e un nuovo romanzo nel prossimo futuro. giancarloonorato.it

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