Sanremo 2018, le prove: occhi puntati su Ron e Lo Stato Sociale

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Un festival in Agonia, un festival Acidulo, Baglioni di luce su un festival oscuro, se ne potrebbero inventare di tutti colori giocando in anticipo sui luoghi comuni e i soprannomi del Grande Conducator di questa edizione di Sanremo formato 68. La realtà è nelle canzoni, presentate tutte in sequenza dal vivo con l’orchestra ieri al teatro Ariston di Sanremo alle consuete prove generali della vigilia. Per chi ha già ascoltato i brani in anteprima è il momento della verifica, perché arrangiamenti, invenzioni, capacità di comunicare sul palco sono la chiave del Festival.
Si può quindi fare qualche considerazione meno improvvisata.
Baglioni ha dichiaratamente scelto un festival di musica, dove la musica sarà sempre predominante in queste cinque serate. I protagonisti sono cantanti veri con il loro curriculum, e canzoni scritte come si deve. E in effetti la seconda impressione è che tutto scorra come si deve, senza capolavori ma senza neppure ignominia. Il mercato discografico questo ha deciso di proporre, e questo è ciò che passa il convento, sperando per Baglioni una miglior fortuna di Ventura con la sua nazionale di non campioni.
“Non volevo farlo finché non ho incontrato una persona per strada che mi ha fermato complimentandosi per il mio ruolo di dittatore artistico del festival. E questa idea del dittatore mi è piaciuta”, spiega ridendo il cantautore romano
Veniamo al sodo.
Il tormentone radiofonico che uscirà da Sanremo è sicuramente de Lo Stato Sociale. Outsider del gruppo, i ragazzi bolognesi sono arrivati col disincanto di chi vuole sparigliare le carte anche visivamente, tanto da uscire dal palco a chiudere il loro “essere fuori”. Una vita in vacanza ne fa i Righeira del terzo millennio, sdoganando al festival anche l’esplicito concetto di “rompere i coglioni” (Sic).
Bel tormentone ritmico (mai, mai, mai) è anche quello dei Kolors, in scena con due tamburi e una base ritmica che rende di fatto irrilevante l’apporto dell’orchestra. Di Frida si ricorderà solo il “mai, mai, mai” che infatti è stato aggiunto al titolo.
Annalisa compare in minigonna di pelle, zip, borchie e calzettoni bianchi. Il pezzo è elegante e lei canta bene, convincendo molto più che in passato. Certo non è la Vanoni, monumento a se stessa e alla canzone italiana, che compare in scena fischiettando e abbracciando Baglioni, con Pacifico al piano e Bungaro alla chitarra, commentando l’effetto speciale che precede ogni canzone con un perplesso: “Ah bello… È uno tsumani?”. Il loro brano sull’imparare ad amarsi, ad accettarsi, anche a lasciarsi, soddisfa il palato.

Alla vigilia tutti parlavano soprattutto di due canzoni, quella di Ermal Meta e Fabrizio Moro e il pezzo di Ron lasciato da Lucio Dalla. Ron, con un bell’arrangiamento di Peppe Vessicchio, rende omaggio all’amico restituendolo con le sue cadenze, il suo stile. La canzone a me piace molto anche se molti lamentano la sua supposta completezza e la mancanza di un vero ritornello. Moro e Meta affrontano invece un tema difficile, una canzone pacifista molto anni ‘60 ma costruita per i tempi d’oggi e i terrorismi recenti. È un tema importante, svolto con convinzione quasi in chiave rap, ma non riesce a convincermi del tutto nella sua esposizione.
Barbarossa porta la sua onesta stornellata d’amore romanesca, Gazzé convince meno con l’orchestra e l’arpa con la sua leggenda di Vieste che perde in teatro quei sapori antichi che aveva su disco. Ma si vedrà alla distanza. Nina Zilli col turbante canta le sue mille donne, dove “donna siete tutti”, altro tema interessante e ben sviluppato che non pare uscire con convinzione dalla media. Avitabile e Servillo paiono invece capitati lì come due artisti di strada entrati per caso, e dalla strada portano un brano denso di napoletanità antica per palati fini.
Caccamo sforna tutto il repertorio da manuale, voce sussurrata che poi si dispega come le braccia alla Modugno, una canzone festivaliera moderna senza infamia né lode. Biondi si affida alla mano di Vessicchio per la sua incursione nel vecchio jazz alla Sinatra, Noemi canta Noemi al suo meglio, prima recitando e poi sparando la voce come Festival richiede, e Renzo Rubino è al solito teatrale e appassionato col suo cardo viola che domina la canzone.
Ma questo è un Festival che si guarda molto indietro cercando di specchiarsi in un passato musicalmente più solido e convincente del presente. E convincenti, perfino inquietanti, sono i Decibel di Enrico Ruggeri, vecchi strumenti rock e sguardo cattivo, che rendono omaggio al mondo musicale di David Bowie con cui sono cresciuti e che li videro esordire su questo palco (più defilati) una quarantina di anni fa. E rock sono Le Vibrazioni, mentori de Lo Stato Sociale, tornati in formazione originaria con una rock song alla Sarcina apprezzabile.
Se c’è una sorpresa positiva in questo festival è l’abbinata Diodato-Roy Paci per un brano reso scenografico da tre fiati “pesanti” e due tamburi che racconta che “adesso è tutto ciò che avremo” con la tromba di Paci che domina, lui con una t-shirt dei Gogol Bordello.
E poi Pooh, che si sdoppiano mostrando dopo le dichiarazioni di amicizia conditte per tutta la vita, come le anime fossero diverse. Facchinetti e Fogli trovano in Pacifico l’autore ideale per un brano tipicamente Pooh, aperto con entrambi dietro al pianoforte e poi davanti a spiegare di “aver visto amici andare a pezzi ed è successo anche a me”. Red Canzian invece sceglie un arrangiamento più rock per raccontare (grazie a Miki Porru) del suo percorso in cui “ne ho scampati di pericoli” molto anni ‘70 e con una voce un po’ didascalica che rifugge dai coretti di un tempo.
Se le Vibrazioni sono tornate e i Pooh ci sono ma separati (con Dodi Battaglia che sta riproponendo in concerto il repertorio storico), Elio e le Storie Tese sono invece al loro addio, con il sopraccigliuto cantante che ostenta sulla maglietta la scritta “ex rockstar” e i cinque pronti a disporsi alla fine fianco a fianco, mano sul cuore per offrire il loro Arrivedorci in stile Stanlio e Ollio al pubblico prima di partire per il tour d’addio. Nessuna anticipazione su come questa banda di matti ha intenzione di comparire sul palco sanremese nelle quattro serate a disposizione.
E poi ci sono i giovani, le cui canzoni sono state rese da subito disponibili e che se la giocheranno ora sul palco dell’Ariston. Uno strano palco, costruito quasi come un tunnel da cui escono i musicisti e disegnato in maniera da essere ben esposto alle telecamere dotate dei più moderni sistemi di ripresa, ma che penalizza tutte le prime file della platea la cui vista è ostacolata in parte dai gradoni sbilenchi della finta scalinata frontale.
Baglioni qui ha perso la sua battaglia per valorizzare maggiormente i nuovi talenti. Avrebbe voluto dar loro più spazi e più possibilità, ma la tv vuole il suo dazio. Comunque in otto sono arrivati fino a qui: Alice Caioli, siciliana, che racconta in poche note ripetute del suo difficile rapporto con il padre, Eva, veneta di Thiene, non troppo convincente con la sua canzone sulle cose che contano davvero nella vita, Giulia Casieri che insegue le atmosfere di Frankie Hi-Nrg virate al femminile tra rap e melodia con grinta e una voce interessante, Leonardo Monteiro, ex ballerino di Amici (mah..), Mudimbi, italo congolese di San Benedetto del Tronto, rapper trascinante che cita anche la barca di Orietta Berti, e i tre probabilmente più interessanti, Lorenzo Baglioni (no, non è parente…) che insegue l’effetto Gabbani portandosi al posto del gorilla quattro stagionati studenti-professori, con zainetto grembiule e tocco, per il suo inno al congiuntivo, Mirkoeilcane con il coinvolgente recitativo su un bambino trascinato via dai giochi verso un tragico viaggio sul barcone della speranza, e per ultimo… Ultimo, giacca di pelle e sguardo triste, che rischia di arrivare primo con il suo Ballo delle incertezze sulla generale precarietà.
Queste le carte in gioco. Il tavolo si apre ora con cinque giorni di canzone popolare, ospiti, ricordi, sorprese e uno sguardo attento ai dati auditel. Buon Festival.

Giò Alajmo
(c) 5 febbraio 2018

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