È un fighetto Jack White, però della specie geniale.
Mi è capitato di affermarlo ai tempi dei White Stripes, senza rimanere più che tanto colpito dalla proposta zeppeliniana ricca di riff virali.
I suoi dischi solisti sono stati più interessanti ma sempre discontinui nella proposta, il penultimo a questo punto, “Lazzaretto”, il più convincente.
Mi è sempre piaciuto invece, l’approccio artistico di Jack White e mi è capitato di affermarlo anche in presenza di qualche “notabile” della nostra scena musicale italica e non solo, venendo schernito.
Quello che Jack pero’ ha fatto in questi anni con la sua etichetta, la “Third Man Records”, è invidiabile e meraviglioso: tra le altre cose, è stato capace di dare libero sfogo alle sue ossessioni acustiche ed estetiche dando vita a progetti che comprendono un disco live di Neil Young dentro una cabina Voice O Graph del 1947 come quelle che venivano usate per incidere dischi da regalare istantaneamente, il disco si chiama “A Letter Home” e racconta la ricerca di ”un modo di offuscare la bellezza con il presupposto di ottenere un posto diverso, un differente carattere”, nelle parole dello stesso Neil.
Ha poi dato origine ad alcuni metodi di marketing per portare attenzione alla pubblicazione dei suoi prodotti che comprendono il rilascio di 500 palloni aerostatici che vengono tracciati, con appesi i dischi.
Insomma, diciamo che non se ne fa mancare nessuna.
Per questo nuovo disco solista, il terzo, il nostro si è volontariamente rinchiuso in un appartamento spoglio da ogni distrazione e si è calato in una condizione tecnica come quella che caratterizzava le sue prime sperimentazioni sonore culminate nei dischi dei White Stripes, un piccolo registratore multi-traccia e un mixer oltre a una discreta scelta di strumenti, in uno scenario garage-blues che ha aiutato, insieme a Beck, a ridefinire il concetto di lo-fi, inteso come low fidelity, non l’aggettivo “lofi” del dialetto emiliano, che significa scarso (Lofi: scrauso, scadente).
Da lì, da un mondo senza distrazioni, è nata la scelta di canzoni che trovano spazio nel disco e il risultato è affascinante, non facile, non ruffiano ma intelligentemente artistico.
C’è infatti più che una analogia con il Bowie di Blackstar che, per rimane fedele al suo fare musica, si nutre di ritmiche hip hop e coinvolge musicisti della scena jazz newyorkese d’avanguardia, riuscendo a rinnovarsi.
In questo caso, uscito dall’appartamento, Jack ha coinvolto fior fiore di collaboratori, ecco la lista:
Alla batteria Louis Cato (Beyoncé, Q-Tip, John Legend,), bassisti Charlotte Kemp Muhl (The Ghost of a Saber Tooth Tiger) and NeonPhoenix (Kanye West, Lil Wayne, Jay-Z), synthesizer players DJ Harrison and Anthony “Brew” Brewster (Fishbone, The Untouchables), keyboardists Neal Evans (Soulive, Talib Kweli, John Scofield) and Quincy McCrary (Unknown Mortal Orchestra, Pitbull), percussionists Bobby Allende (David Byrne, Marc Anthony) and Justin Porée (Ozomatli), and backing vocalists Esther Rose and Ann & Regina McCrary of Nashville’s beloved gospel trio, The McCrary Sisters, as well as longtime collaborators like drummers Daru Jones (Nas, Talib Kweli) and Carla Azar (Autolux, Depeche Mode, Doyle Bramhall II). Singer-songwriter C.W. Stoneking also appears, contributing a stirring spoken word performance to the album’s “Abulia and Akrasia.”
Il risultato è un pastiche sonoro splendidamente registrato e uno sguardo sul futuro perlomeno interessante e stimolante che presto vedrà la luce anche live in un concerto che lo stesso Jack White ha confermato come essere il più ambizioso progetto della sua vita artistica, con loops e tastieristi doppi, lontano anni luce dalla sua idea vintage proposta in passato.
Ha destato interesse l’idea comunicata da White di volere che la gente che decide di partecipare al suo concerto lo debba fare rinunciando allo smartphone ma dietro questo tipo di provocazioni si cela l’animo del marketing del furbo Jack.
Chiaramente , la comunicazione ci fa immaginare un ricercatore sonoro dentro uno spoglio appartamento che si frusta il cervello e le dita per ottenere quello che, quando lo ascolti, è un disco finito e che suona benissimo, grazie alle registrazioni effettuate dentro i migliori studi di New York e Los Angeles ma l’idea di base rimane: quella di creare attenzione su un progetto di musica vera e necessaria.
Gran bel disco by the way, lontano anni luce dalla gittata limitata, se non limitatissima, della nostra morta industria discografica dedicata ai neo-melodici farlocchi e ululanti strofe degne del libro Cuore degradato.