Dopo alcuni anni, io ritorno in prigione.

Lo faccio con più malinconia di quanta ne avessi l’ultima volta. Con più timore per il mondo di fuori, che non si è aggiustato di più, ma lo stesso pretende di essere in qualche modo migliore di quello che vi è albergato dentro.

Lo faccio con più voglia di guarire dalla vita.

Il cielo da dentro la prigione è più bello, la primavera più profumata e l’estate più vicina anche solo perché non è per te, non te lo puoi permettere, non lo sai ancora, né sai se potrai più permettertelo. Così guardi a quella grande curva d’aria che sovrasta tutti come a un dopocena estivo, zeppa di voci di grilli a decorare il quieto spegnersi di ogni cosa.

Certo, direte voi, andarci di spontanea volontà è un’altra cosa.

Certo, dico io, ma proprio perché nessuno mi costringe a farlo e potrei dunque evitarlo è importante che io vi porti qualcosa di mio.

Perché io in carcere ci torno convinto.

Ci torno per stare di nuovo con tutti i sentimenti miei e quelli di altri, per stare ancora con le canzoni in testa, quelle che vorresti tanto partorire e che non arrivano mai del tutto come le desidereresti, e quando arrivano sono rapidissime cellule di un tutto inafferrabile, troppo veloce persino per essere pensato.

Una volta dentro, sommi prigione, primavera, prossimità dell’estate, amore umido e non ancora maturo e canzoni, e ne esce il tuo momento speciale, quello che vorrai ancora ricordare domani, così come oggi ricordi gli altri ieri in cui sei stato dentro, e ti è servito.

Ma a cosa serve andare dentro?

Forse a capire il fuori.

Si va dentro per vedere le cose dal giusto punto di vista, per non fare del male ad altri né più a se stessi, ci si va per correggersi, per aggiustarsi, sistemarsi, per calmarsi, per fermare la testa che gira, per saper dire le cose e le parole giuste, chiamare le persone con il giusto nome, dimenticato.

Io ci vado per cantare, e cosa sia questa canzone non si sa, io almeno non lo so, per mia fortuna, ma credo che dentro non si possa fare cosa migliore che cantare.

Dovreste andare dentro anche voi, qualche volta. Tutti coloro che non hanno mai avuto modo di pensare di essere cittadini liberi dovrebbero provare.

Se lo faceste, sareste più liberi, come lo sono io dalla prima volta che ho provato, tanti anni fa, ed è stato bello al punto che mi è rimasto il desiderio forte di tornarci. Da allora ci sono tornato più volte, infatti, in diverse stagioni, con diversi compagni e con diversa musica: ora deve essere la sesta o la settima.

Così so già come sarà.

La primavera sarà un abbraccio tiepido, e i muri non sembreranno di un giallo sporco ma dorati, ci saranno risa in corridoio e caramelle alla menta, bottiglie d’acqua naturale dai nomi sconosciuti, distributori di merende, lattine di coca-cola abbandonate ammaccate su tavoli in stanze vuote e pacchetti di salatini aperti, i succhi di frutta tracannati, e ai muri stampe degli anni settanta.

Tutto sarà più bello, quando io sarò dentro con gli altri. E persino la mia chitarra mi stupirà, come già è accaduto, sembrando proprio la stessa che suona nel mio salotto verso sera, accanto alla brocca dell’acqua fresca. Solo che in quel momento servirà davvero a qualcosa: smettendo di essere uno strumento musicale diventerà un ponte e io sarò felice di quell’imbrunire lento, del rimestare della luce prima di decidersi ad una estinzione languida.

Se ci andaste, sapreste che certa parte di Milano è più brutta di ciò che si vede da dentro una delle sue prigioni. Curioso, vero? Non ci si pensa, ma a me è stato chiaro subito.

La prigione è un interruttore tra ciò che è come lo vediamo e ciò che è come lo immaginiamo. Immaginiamo spesso di vivere in un bel posto, ad esempio, e non è così. Immaginiamo che certe cose brutte siano brutte e poi si scopre che sono meno brutte di ciò che abbiamo invece pensato come bello.

Insomma, si perde naturalmente l’orientamento, come in immersione, quando diviene necessario che sia indicato l’alto e il basso.

Ma questa confusione genera poi una potenza nuova, e si è grati a se stessi per avere capito.

Per questo vado dentro dispiaciuto soprattutto del fatto che voi restiate fuori, in una tristissima libertà. E una volta entrato a tutti dirò: vi salutano quelli che sono liberi.

E dentro saranno tristi per voi, e vi saluteranno.

gianCarlo onoratoMusicista, scrittore e pittore fuori dagli schemi, ex leader di Underground Life. Ha pubblicato i dischi: Il velluto interiore (1996), io sono l’angelo (1998), falene (2004), sangue bianco (2010, Premio Giacosa), ExLive (2014) con Cristiano Godano, quantum (2017), “quantum Edizione Extra” (2018), ha curato la co-direzione artistica del Tributo a Luigi Tenco come fiori in mare Vol. I (2001) e Vol. II, in “Sulle labbra di un altro” (2011), ed i libri: Filosofia dell’Aria (1988), L’Officina dei Gemiti (1992), L'ubbidiente giovinezza (1999), Il più dolce delitto (2007), “ex-semi di musica vivifica” (2013), La formazione dello scrittore” (2015). Ideatore del Seminario del Verbo Musicato, ha centinaia di concerti alle spalle e un disco, un tour e un nuovo romanzo nel prossimo futuro. giancarloonorato.it

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