Pearl Jam: tanto McCready e un po’ di Vedder, a Milano è questione di “love and trust”

Dopo i dubbi della vigilia, la band di Seattle trasecola i 60mila del I-Days con uno show “corto” e tenace dove chiunque, nessuno escluso, ha fatto la sua parte

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Pearl Jam
@I-Days 2018

Gliela fa o nun gliela fa? Ok, ci mancava solo l’indimenticabile Gianfranco Funari (nell’altrettanto indimenticabile imitazione di Corrado Guzzanti) e poi la conta era pressoché completa. Perché questo è stato il dubbio amletico che ha scavato nella psiche dei 60mila presenti in quel di Rho, periferia nord di Milano. Giunti fin qui per la seconda giornata degli I-Days 2018, ma soprattutto per il debutto del breve tour italiano (24 giugno a Padova, 26 a Roma) dei sempre più osannati e seguiti Pearl Jam. E il destinatario principale di tale dubbio era il signor Eddie Vedder, 53 anni portati alla grande, ma messo ko qualche giorno fa a Londra da una brutta laringite. Con conseguente seconda data alla O2 Arena annullata per la disperazione dei fan inglesi, e non solo. La paura, infatti, era che l’infortunio più frequente tra i cantanti (perdita della voce) potesse mettere a repentaglio anche lo show milanese. Paura fondata, intendiamoci. Non solita chiacchiera collettiva.

Sveliamo subito l’arcano: Vedder, in quel di Rho, ce l’ha fatta… in parte. Non poteva essere che così essendo passato poco tempo dall’infezione alla gola e con la prospettiva, imminente, di altre grandi montagne live da scalare. Alla maniera dei migliori ciclisti quando vanno raramente in crisi (Hinault, Indurain, Froome), il rocker tifoso dei Cubs si è fatto trascinare dalla sua band e da un pubblico generoso, sempre pronto ad aiutarlo allungandogli la boraccia di un coro da arena o di una strofa cantata al posto suo. E il buon Eddie si è opportunamente amministrato. Niente di scandaloso, per la carità: si chiama mestiere. Carisma. Astuzia. E tutti i più grandi frontman di questa Terra ne dispongono.

Anche perché l’incipit è stato claudicante: Release, con omaggio al primissimo concerto italiano dei seattleites(Sorpasso di Milano, 18 febbraio 1992: il giorno prima era cominciata Tangentopoli), è una sorta di karaoke tellurico dove Vedder fa quel che può, esattamente come nelle successive (non facili, onore al merito) Elderly woman e Do the evolution. Ma qualcosa, poco alla volta, migliora. La voce si scalda, i Pearl Jam acquistano scioltezza e, tempo una Given to fly, è già il turno di tre pezzi da Novanta (nel senso degli anni) come le brividose Whishlist, Even flow e Courdory dove decolla pure il primo assolone di Mike McCready della serata. Ecco, ora sì che stiamo assistendo a qualcosa di speciale. Non di eroico, ci mancherebbe: gli eroi sono quelli che vanno a vaccinare i bambini in Africa o a scavare tra le macerie di un terremoto. Qui siamo più nel territorio del tenace. Del vendere cara la pellaccia.

Pearl Jam
@I-Days 2018

E quindi ben venga il pathos oscuro, strascicato di Immortality o la stizza di quel McCready che ha voglia di strafare e misurarsi nel sacro Graal dei chitarristi, alias una cover strumentale di Eruption dei Van Halen. Eruption, signori: come sfidare Diego Armando Maradona in una gara di palleggi quando il Pibe aveva 25 anni e adoperava i mandarini o le palline da golf. Che rocker, il Mike. Oggi, d’altronde, tutto è rock: i politici che parlano di pancia, gli sportivi drogati di marketing, le soubrette con le magliette degli Who o dei Mötley Crüe slavate ad hoc dagli stilisti. I fan dei Foo Fighters che li hanno scoperti l’altro ieri. Ma voi non credetegli. Rock, genuinamente rock è Mike “fuckin” McReady: pantalone rosso scozzese, t-shirt dei Thunderpussy (la Seattle che non muore mai) e tecnica urticante che mischia Jimi Hendrix, Joe Perry, un po’ di Randy Rhoads e il famoso olandese trapiantato in California, tapping compresi.

Rock è il drumming mai in calo di Matt Cameron. Rock è il canuto tastierista Boom Gaspar che cuce le sue trame fregandosene delle luci della ribalta. Rock sono i Pearl Jam che, in una scaletta “amputata” come da previsione, non si cibano solo di hit, ma anche di materiale che non è esattamente popolare come quella ‘Another brick in the wall part 2’ che irrompe sulla coda di ‘Daughter’, eseguita con Jeff Amental contrabbasso acustico. No, su diciannove pezzi in totale, Gossard e soci pescano anche caramelle golose, degne del Ten Club, come ‘You are’(mood quasi elettronico), Mankind (e qui, ovviamente, canta Stone), I got Id (vecchia collaborazione con Neil Young uscita in primis sul EP Merkin Ball) e addirittura Footsteps, che era la b-side di Jeremy recuperata poi sul raccoltone di rarità Lost Dogs. Quanta grazia.

Pearl Jam
@I-Days 2018

Poi, improvvisa, la resurrezione: Vedder invita sul palco la moglie-modella Jill McCormick, stappa un Brut, brinda con lei ad un vecchio concerto meneghino (Forum, 22 giugno 2000) dove scoppiò l’idillio sentimentale tra i due e infine si lancia in una Porch– prima funky, poi sontuosa cavalcata elettrica – che riporta la sua voce su livelli belli tosti. Si tratta, però, di un attimo perché saremmo già ai bis con una Black d’atmosfera (lampadari rossi che vengono calati dall’alto) dove il supporto della folla ritorna fondamentale. Prima che Alive prosegua il rito e l’immancabile Rockin’ in a free world martelli a dovere chi ancora non ne ha abbastanza. Tutti, nessuno escluso. Qui Eddie fa il suo show nello show (tamburelli lanciati alle prime file e mini-citazione delle celeberrime scalate al palco che compiva da pischello: saggiamente, stanotte, si ferma al terzo gradino di una torretta laterale…) mentre il solito McCready, se potesse, porterebbe il suo assolo-fiume fino ai tornelli della metro di Rho/Fiera. E non gli farebbero neanche pagare il ticket.

Il finale è affidato alla classica Yellow bedletter dove il volemose bene, percepito in tutte le due ore, trova un’ulteriore conferma stampigliata a caratteri cubitali. The end, si torna a casa lungo l’infinito decumano dell’Expo invaso da una folla degna della finale dei Mondiali. E quindi? Beh, non il più bel concerto dei Pearl Jam in una sfilza di centinaia di esibizioni memorabili, ma sempre meglio di un cantante barricato in hotel e attaccato all’aerosol mentre il manager annulla tutto. Una scaletta nemmeno paragonabile a quella andata in scena al PinkPop Festival del 15 giugno scorso (leggete e rosicate).

Uno show, comunque, importante perché i vecchi autori di Ten stanno diventando sempre di più una “proprietà italiana” in una nazione che al contrario sta privatizzando tutto, attaccata famelicamente ai soldi degli investitori esteri. Capriccio tricolore, sia ben chiaro, con tutti i rischi del caso annessi. Amore soffocante da un lato (“Eddie, Eddie, Eddie!”) e approssimazione fashion dall’altra. Critiche fastidiose e sparute che escono dal coro. O come dicevano bene i latini, fondatori di quella Roma che Vedder tanto adora, “tante teste, tante idee”. E comunque, dai, anche questo è rock ‘n’ roll…

 La scaletta dei Pearl Jam al I-Days 2018

1) Release
2) Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town
3) Do the Evolution
4)Given to Fly
5) Wishlist
6) Even Flow
7) Corduroy
8) Immortality
9) Eruption (cover dei Van Halen)
10) You Are
11) Daughter (con coda di ‘Another Brick in the Wall Part 2’)
12) Mankind
13) I Got Id
14) Porch
15) Footsteps
16) Black
17) Alive
18) Rockin’ in the Free World (cover di Neil Young)
19) Yellow Ledbetter

@I-Days 2018
Simone Sacco nasce nel 1975, l'anno in cui i Cincinnati Reds (la temibile 'Big Red Machine', la più grande squadra di baseball di tutti i tempi) vinsero le World Series. Nella vita scrive abitualmente di musica, tattoo art, calcio, sport, letteratura ecc. Deve tutto, nel bene o nel male, al 1991 e ai dischi (tra cui 'Nevermind' dei Nirvana) che uscirono proprio in quell'indimenticabile stagione.

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