Roger Waters al Circo Massimo: resistenza civile a colpi di rock

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Roger Waters Us + Them
© Foto: Riccardo Medana

Ieri sera al Circo Massimo di Roma, davanti a circa 40.000 persone, è andato in scena l’ultimo degli unici tre concerti all’aperto (dopo Londra e Lucca) della leg europea del tour Us + Them di Roger Waters.

L’ex Pink Floyd è una delle ultime leggende viventi del rock, e a vedere la grinta e l’ardore che ci mette dall’alto dei suoi quasi 75 anni dimostra molta più energia di tanti giovani che vorrebbero (e dovrebbero) spaccare il mondo. Waters non vuole spaccare nulla, semmai vuole unire e cercare di ricomporre i pezzi del puzzle di questo nostro pianeta che sta andando in frantumi e cerca di farlo risvegliando e smuovendo le coscienze degli spettatori, cercando di tirargli fuori l’anima con la potenza d’impatto delle parole delle sue canzoni unita a quella delle immagini proiettate sull’enorme maxischermo di ben 66 metri di lunghezza per 12 di altezza.
Alla sua età, con la sua carriera alle spalle e dopo aver cambiato già diverse volte la storia del rock e della musica in generale, il bassista e fondatore dei Pink Floyd potrebbe limitarsi a suonare la solita carrellata di canzoni in stile greatest hits (che è più o meno quello che fa il suo ex compagno di band David Gilmour), ma non sarebbe lui: la necessità di usare le armi a sua disposizione ovvero la sua musica e la spettacolarità del suo palco per lanciare messaggi è una prerogativa imprescindibile dei suoi spettacoli.
Questa sua necessità di voler comunicare non solo alle orecchie della gente ma anche al loro cervello e al cuore è ben racchiusa nelle parole pronunciate al momento dei bis: «Ieri ho controllato la mia pagina Facebook dove c’era l’annuncio del concerto di questa sera, e un coglione aveva scritto tra i commenti, “Speriamo che pensi alla musica e non parli di politica”. Voglio dirti questo: vaffanculo!».
E ha ragione, il buon Roger: chi è convinto di andare ad un suo concerto con l’idea di sentire solo della musica non ha capito nulla nè dei testi delle sue canzoni nè del suo modo di essere e di fare live, e probabilmente non ha capito nulla neanche del potere che ha la musica nel veicolare messaggi importanti e talvolta necessari. Perchè se i potenti del mondo stanno facendo scempio del nostro pianeta allora è necessario che la resistenza sia portata avanti dagli intellettuali, dagli artisti, dalla gente comune. E infatti è proprio RESIST la parola d’ordine di tutto il concerto, soprattutto della seconda parte.

Sulla falsariga degli album che ha ideato per i Floyd potremmo definire questo show un “concept concert”, perchè dall’inizio alla fine c’è una storia raccontata, un senso logico, uno svolgimento con un crescendo fino al culmine finale che vuole portare lo spettatore ad entrare in simbiosi con le parole che ascolta e le immagini che vede sul maxischermo.
I venti minuti che precedono l’inizio del concerto proiettano sullo schermo un lungo video di una donna seduta sulla spiaggia, come in attesa, e dal fantastico impianto quadrifonico che circonda tutto il Circo Massimo arrivano
i rumori del mare, dei gabbiani.
Tutto d’un tratto il cielo si fa rosso, il battito del cuore irrompe sulla scena ed è l’inizio di Speak to me, da The Dark Side of the Moon, album che viene eseguito integralmente (eccetto i due strumentali On the run e Any colour you like) e che va ad abbracciare tutto il concerto, aprendolo e chiudendolo. Ovviamente la scelta non è a caso, perchè il senso di quell’album e la sua suddivisione delle tematiche tra il lato A e il lato B del vecchio 33 giri dalla copertina col prima segna il passo e tiene insieme il significato di tutto il concerto.
The Dark Side of the Moon, dicevamo. Tutta la prima metà del disco, un brano dietro l’altro, eccezion fatta per On the run che viene sostituita da One of these days, tratta da Meddle. Il significato è ovviamente quello dell’album: dall’esortazione a preoccuparsi per gli altri in Breathe (“don’t be afraid to care”) alla denuncia del tempo perso senza fare nulla in Time (“You are young and life is long and there is time to kill today / And then one day you find ten years have got behind you.”) e al ritiro in solitudine della ripresa di Breathe fino alla morte, metaforizzata in The great gig in the sky.
Tutto questo, portato all’interno dello show, sta a significare l’ignavia delle persone, che non hanno slanci, che si lasciano vivere e scivolare addosso la vita, fino ad essere divorati dal mondo che gli sta intorno, freddo e spietato come un macchinario, quindi Welcome to the machine. La spietatezza del mondo, metaforizzata dall’acciaio, che ingloba e porta alla pazzia chiunque non sia abbastanza forte da riuscire ad opporsi, esattamente come fu per Syd Barrett, destinatario del brano.
Un mondo d’acciaio, quindi, freddo e spietato, dove non sono più gli uomini ma i droni a decidere della vita e della morte, come si racconta in Déjà vù, uno dei tre brani in sequenza tratti da Is This The Life We Really Want?, ultimo album di inediti di Waters, pubblicato l’anno scorso. Gli altri due sono The last refugee, con un fantastico video di una donna che balla in bilico tra sogno di danzare su un palcoscenico e realtà di una vita da rifugiata e Picture that, primo atto di accusa, come una sorta di tentativo di risveglio di una coscienza intorpidita e oppressa da un sistema molto più grande e più potente di lui. Ma è un tentativo effimero, perchè sulle note di Wish you were here appaiono sullo schermo due mani che si cercano, si avvicinano, tentano di toccarsi, ma poi inevitabilmente si frantumano, andando in mille pezzi, in sintonia col tema dell’assenza del brano.
Serve un’accusa più forte per risvegliare dal torpore coscienze assopite, servono i brani di denuncia dell’opera rock per eccellenza, The wall. Ecco allora The happiest days of our lives e Another brick in the wall part 2 & 3. Il messaggio di questo trittico è tanto semplice quanto immediato, visto che ad impersonificarlo sul palco ci sono dei bambini, dapprima vestiti con le tute arancioni dei prigionieri di Guantanamo e col volto incappucciato, ma che al grido di “We don’t neen no education”, si ribellano, togliendosi il cappuccio, strappandosi la tuta e mostrando una maglietta con la scritta “RESIST”.
La catarsi si è compiuta, le coscienze si sono svegliate e si sono ribellate al sistema. E’ giunto il momento di fare una pausa e serrare i ranghi per preparare la resistenza.

Durante l’intervallo scorrono sul maxischermo tanti motivi per resistere: contro Mark Zuckerberg, contro il neo-fascismo dilagante in mezzo mondo (Italia compresa), contro l’inquinamento globale, contro chi uccide per motivi religiosi ed etnici, come fa Israele coi Palestinesi. La resistenza, secondo Waters, è il modo per tenere sveglia la coscienza e, citando Orwell, bisogna resistere all’idea che alcuni animali siano più uguali degli altri, come ad esempio i maiali o i cani.
Non è casuale la citazione proprio di queste due specie nè tantomeno quella dello scrittore britannico, che ispirò a Waters la scrittura di Animals: il secondo tempo, infatti, si apre con le sirene spiegate che annunciano dei lavori di costruzione: ecco che sullo schermo e sopra di esso si staglia, imponente, la Battersea power station di Londra, compresa di ciminiere e immancabile maiale volante. La copertina dell’album è fedelmente riprodotta e la resistenza inizia proprio con i brani dedicati a due facce del sistema a cui ci si oppone: Dogs, ovvero quei cani arrampicatori sociali, disposti a tutto pur di arrivare al potere, e Pigs (three different ones), cioè quelle categorie di persone che si ingrassano alle spalle degli altri come uomini d’affari e personalità della politica. E chi racchiude in sè il peggio delle accezione negative di entrambi i campi è il bersaglio delle invettive e destinatario principale del brano: il presidente americano Donald Trump, definito senza mezzi termini un maiale, mentre un enorme suino gonfiabile vola sopra le teste degli spettatori con su scritto “restiamo umani”, fino a venir distrutto dal pubblico proprio come segno di ribellione verso i maiali che governano il mondo.
Ma cos’è che spinge questi maiali a cercare il potere senza guardare in faccia a nessuno? I soldi, ovviamente. E allora Money, come denuncia all’avidità, mentre sullo schermo scorrono le foto dei potenti e dei ricchi del mondo (tra cui Berlusconi).
Per resistere è importante avere empatia per il prossimo, immedesimarsi nell’altro, ed è con il significato di Us and them che arriva il messaggio cardine (che dà infatti anche il titolo all’intero tour): mentre c’è chi pensa solo alle guerre e ai confini da spostare, trattando gli uomini come pedine su di una mappa geografica, noi abbiamo il dovere di restare umani, di unirci gli uni agli altri per cercare di vivere in armonia e di resistere insieme contro le ingiustizie, come ad esempio la tortura, denunciata in Smell the roses, altro brano dell’ultimo album, in cui Roger simbolicamente si incatena i polsi ad una corda scesa dall’alto del palco.
La resistenza continua con le ultime due perle tratte da Dark Side, ovvero Brain damage, dove si denuncia il fatto che la scalata verso il potere rende pazzi e si rivendica il diritto ad essere altro da questo, a costo da non sembrare noi quelli normali piuttosto che quelli omolgati, ed Eclipse, summa conclusiva e perfetta chiusura del cerchio: il mondo, la natura, tutto ciò che ci circonda  e che si trova sotto il Sole è in armonia, ma il Sole è eclissato dalla Luna, ovvero è l’uomo che rovina la perfetta coesione dell’ambiente in cui vive.
E mentre Waters canta queste ultime parole nel parterre si forma un enorme prisma fatto di raggi laser che viene attraversato da un altro fascio laser che parte dal palco coi colori dell’arcobaleno, a ricreare quella che probabilmente è la copertina più iconica della storia della musica.

Roger ringrazia in italiano, presenta la band (David Kilminster alle chitarre, Jonathan Wilson a chitarre e voce, Gus Seyffert a chitarre e basso, Bo Koster alle tastiere, il fido Jon Carin a pianoforte, tastiere, chitarre, Ian Ritchie al sax, Joey Waronker alla batteria, le Lucius, ovvero Jess Wolfe e Holly Laessig ai cori), invita il pubblico a rimanere umano e ad interessarsi di politica e delle cose di questo mondo, perchè abbiamo il dovere di lasciare ai nostri figli, nipoti e alle future generazioni il miglior pianeta che possiamo, e per farlo serve l’impegno di tutti.
E’ il momento dei bis. Tocca quindi a Mother, con l’ormai storica risposta “col cazzo” alla frase della canzone “Mother, should I trust the government?” e la grande chiusura con Comfortably numb: quelle mani che cercavano di toccarsi e che avevamo visto sgretolarsi come un sogno infranto durante Wish you were here tornano e stavolta il miracolo si compie: si avvicinano, si sfiorano, si toccano fino a stringersi in una presa salda, come a simboleggiare il fatto che bisogna cooperare, tenersi per mano, unirsi e stringersi l’uno all’altro per risollevare le sorti della Terra.
Tripudio di assolo finale, fuochi d’artificio, pubblico in delirio, inchino della band.
Sullo sfondo, nella classica struttura ciclica dei lavori di Waters, torna la ragazza seduta sulla spiaggia che ci aveva fatto compagnia prima dell’inizio del concerto, ma stavolta viene raggiunta da una bambina che l’abbraccia e si siede accanto a lei, a voler simboleggiare una speranza per il futuro del mondo.

Ecco la scaletta del concerto:
1. Breathe
2. One of these days
3. Time
4. Breathe (reprise)
5. The great gig in the sky
6. Welcome to the machine
7. Déjà vù
8. The last refugee
9. Picture that
10. Wish you were here
11. The happiest days of our lives
12. Another brick in the wall (part 2)
13. Another brick in the wall (part 3)

14. Dogs
15. Pigs (three different ones)
16. Money
17. Us and them
18. Smell the roses
19. Brain damage
20. Eclipse

21. Mother
22. Comfortably numb

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