Rock, la musica migrante

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Un'immagine tratta dal finale del Live Aid del 1985

La musica che ascoltiamo oggi, che ci ha riempito la vita, ci ha appassionato in tutte le sue sfumature e varietà, ci ha unito in mille concerti, ha seguito la crescita di varie generazioni fino a diventare una specie di collante culturale capace di farsi comprendere in ogni parte del globo. Per chi è cresciuto con il rock’n’roll, i suoi padri e i suoi derivati, è facile capire quali valori ci fossero in quelle note, quei ritmi, quei suoni che rompevano ogni schema. Non era più la musica di un paese, era una musica migrante, che si ispirava e fondeva con qualunque altra generando sempre qualcosa di nuovo.

Astor Piazzolla amava dire che senza gli italiani il tango argentino non ci sarebbe mai stato, perché furono le migliaia di emigranti giunti nel sud del nuovo mondo con i loro strumenti e le loro tradizioni a fondersi con la musica del posto e creare questo mix unico. Così il blues, alla radice delle più grandi mutazioni del Novecento musicale, prese vita dalla musica africana degli schiavi in America, diede vita al jazz e ispirò Gershwin prima di essere esportato in Europa e trovare nuova attenzione presso i musicisti bianchi inglesi dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Era ancora musica migrante che attraversava l’Atlantico verso i porti europei, da Napoli a Liverpool per essere acquisita e fatta propria dai giovani musicisti del posto.

Ma la stessa musica americana era figlia delle più diverse influenze e delle diverse migrazioni, irlandesi, italiane, ebraiche, ucraine, polacche, africane, francesi e hawaiane, ognuna coi suoi ritmi, i suoi strumenti, finché la Guerra Civile non portò a produrre stili più originali.

Il rock’n’roll stesso nasce da una fusione di elementi e stili diversi, musicali ed etnici, bianchi e neri. E diventa il cavallo di battaglia di una grande trasgressione culturale, la rottura con gli schemi che volevano musica e musicisti di diversi colori di pelle sempre separati fra loro e con pubblici diversi e omogenei. Elvis è un bianco che canta come un nero, ma chi ascolta la musica per radio o dai dischi senza copertina, non sa dire e non si preoccupa di sapere se Jerry Lee Lewis, Little Richard, Chuck Berry, e Bill Haley siano bianchi o neri.

La musica rock come la conosciamo oggi deve tutto a questa prima mescolanza di colori e generi, che poi fu tradotta anche in ordinamento sociale e politico, e ad alcuni profughi o figli di profughi che avevano trovato rifugio altrove. Bob Dylan, per esempio, i cui nonni paterni erano fuggiti dall’Ucraina a causa delle sommosse antisemite a Odessa nel primo Novecento, i “pogrom”, e quelli materni si erano rifugiati in Usa nello stesso periodo fuggendo dalla Lituania. O il “Padre del Blues Inglese”, Alexis Korner, nato a Parigi da genitori austriaci che nel 1940 fuggirono per sottrarsi all’avanzata dei nazisti e trovarono rifugio a Londra.

Dylan ha cambiato la musica del nostro tempo. Alexis l’ha modellata, diventando il portavoce del blues in Inghilterra e facendo da nave scuola per un’intera generazione di artisti, dai Rolling Stones ai Colosseum, ai Fleetwood Mac, ai Led Zeppelin, che venivano ai suoi concerti a imparare e a farsi le ossa su questi tre accordi in dodici misure venuti dall’Africa passando per l’America.

Altro hanno fatto i Beatles, capaci di guardare lontano, alle avanguardie e anche alla più lontana delle tradizioni, quella indiana. Che mondo strano era quello dell’era beat, poi pop, poi rock, capace di ritrovarsi a un festival rock per ascoltare Ravi Shankar e la sua musica per sitar, che ispirò l’avanguardia iterativa, da Riley a Glass, come poi sarebbe accaduto per musiche diverse e dalla più disparate origini, il reggae di Bob Marley, l’Africa di Miriam Makeba e Fela Kuti, l’Islanda di Bjork, le musiche tzigane, klezmer, andine, la nativa americana Buffy Saint-Marie a Woodstock, la chitarra di Hendrix, sanguemisto cresciuto a Seattle ed esploso a Londra, il Brasile con i suoi ritmi. E non dimentichiamo l’apporto italiano, da Madonna (Ciccone) a Lady Gaga (Germanotta), da Sinatra a Michael Bublé, o Bruce Springsteen, napoletano per parte di madre (Zerilli). 

Quando sento dire che i musicisti dovrebbero cantare e suonare e non occuparsi di altro, mi viene sempre da pensare che non è possibile. Perché non è mai stato così. Perché la musica è espressione dell’anima, di un popolo, di una cultura, del mondo circostante, colonna sonora della vita. Strange Fruit era solo una canzone che Billie Holiday cantò nel 1939. Ma ebbe un impatto incredibile all’epoca come denuncia della condizione dei neri negli stati del Sud, cantando degli “strani frutti degli alberi del sud”, le vittime nere dei linciaggi impiccate ai rami.

Woody Guthrie aveva scritto sulla sua chitarra “questa macchina uccide i fascisti”. Joan Baez era al fianco di Martin Luther King nelle sue battaglie per i diritti civili. Pete Seeger cantava contro la guerra e per i diritti dei lavoratori. Bob Dylan si rifiutò di andare in tv perché non volevano fargli cantare John Birch Society Blues contro un gruppo neonazista che vedeva comunisti dappertutto. Crosby Stills Nash e Young attaccarono il governo per i quattro morti a una manifestazione studentesca in Ohio e per le cariche poliziesche contro gli studenti a Chicago, Jimi Hendrix stravolse l’inno americano per denunciare l’inutile guerra in Vietnam, gli U2 hanno celebrato il bloody sunday irlandese quando l’esercito britannico sparò sulla folla pacifica, Bob Geldof ha riunito due volte i migliori musicisti del mondo a sostegno dell’Africa affamata, Bono si è speso per l’eliminazione del debito pubblico dei paesi poveri, e tanti musicisti decisero un embargo al Sudafrica razzista, per poi sostenere e celebrare la liberazione di Mandela. Roger Waters cita Orwell in quasi tutti i suoi dischi con e senza i Pink Floyd e si batte contro ogni muro, da Berlino al Messico a Gaza. Perché fare musica è un fatto politico perché è un fatto culturale.

Lo si ascolta dai cantautori italiani, da Fabrizio De André, a Guccini, a De Gregori. Ma perfino Sanremo mescolò agli inizi canzonetta e politica, con Nilla Pizzi e la Colomba bianca dedicata alla crisi di Trieste e dell’Istria, e Papaveri e papere, parodistica denuncia dell’iniquo rapporto di forze tra potenti e gente comune.

Molti piangono Freddie Mercury, l’istrionico cantante dei Queen. Pochi ricordano che anche lui era un profugo e un immigrato, scappato dalla rivolta a Zanzibar con i genitori indiani per trovare rifugio a Londra. Come lo era David Zard, ebreo libico, arrivato in Italia per fuggire alle persecuzioni dopo la guerra dei Sei Giorni.

Il rock nella sua storia ha veicolato messaggi di pace, di solidarietà. Ha sostenuto la causa dei neri d’America e dei diritti civili portando alla fine della segregazione, ha in qualche modo liberato la gente dai pregiudizi sull’omosessualità, ha sostenuto la causa pacifista contro il Vietnam e veicolato culture diverse da quelle dominanti, tanto che, alla caduta della Cortina di Ferro lo scrittore ceco Vaclav Havel chiese a Frank Zappa di diventare il suo ambasciatore culturale.

Ma il cambiamento portato nella cultura del tempo passa anche per la sola musica. Negli anni ’60 la filosofia della musica di gruppo, dell’autore collettivo, dei complessi senza apparenti gerarchie interne dove ognuno dava il proprio contributo per quel che gli competeva alla realizzazione del prodotto finale fu l’antitesi alla musica popolare basata sulla sola attenzione per il cantante, per le facce belle, per i simpaticoni ammiccanti. Contava la musica, lo strumento, il suonare insieme anche improvvisando, nel rispetto di tutti gli altri. Era un “fare insieme” dove la voce era nulla più che una delle tante componenti, fondamentale, ma non determinante.

Con tutte le sue contraddizioni, le sue ingenuità, le sue deviazioni, i suoi esperimenti anche pericolosi, la generazione del rock è stata la colonna sonora di un grande – forse illusorio – progetto di un mondo a misura d’uomo proiettato verso il futuro, senza spazio per razzismo, egoismo, violenza, sopraffazione, steccati, discriminazioni.

Giò Alajmo
(c) 2018

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