Venezia 75. At Eternity’s Gate

Ultimi giorni di Van Gogh prima di entrare nell’eternità. Un pittore raccontato da un pittore senza pittura?

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Un Van Gogh firmato Schnabel è una chicca o una chimera. Julian Schnabel, che già aveva affrontato da artista un artista in Basquiat, dopo incursioni diverse torna alla pittura in At Eternity’s Gate, e affronta Van Gogh dell’ultimo periodo, dalla rottura con Gauguin al tormentato periodo di Arles, quindi capolavori a profusione (per noi oggi) e delusioni a pioggia (per la mentalità dei colti e degli ignoranti di allora): crisi psichiche, internamenti, il taglio dell’orecchio, il colpo di pistola finale dopo l’apparente oasi di pace dal dottor Gachet. Sulla soglia dell’eternità è anche il titolo di un quadro di Van Gogh che mostra un vecchio chino su una sedia a piangere.
Ci si chiede: dopo Brama di vivere di Minnelli, Vincent & Theo di Altman, Van Gogh di Pialat e vari documentari, ha ancora senso raccontare il genio dell’olandese in parallelo al suo disagio psichico? Non è come la vecchia teoria che voleva la pittura di El Greco un problema oculistico? Può essere che Schnabel pittore e regista in apparenza abbia fatto un film su un pittore usando il meno possibile la pittura? In effetti fotografa nel modo più piatto il suo Van Gogh (Willem De Foe) salvo sconvolgere i movimenti di macchina, il montaggio, le sovrimpressioni e usando mezzo schermo fuori fuoco nelle crisi psichiche. Può essere una tecnica, avrà ragione lui, ma la sensazione è che il Van Gogh più vero non lo voglia far emergere dalle immagini ma dai dialoghi, quando come una sorta di Gesù poco ascoltato spiega con pazienza a un prete che deve valutare la sua salute psichica che anche la pittura come la bellezza è negli occhi di chi guarda, e se gli occhi sono addestrati a considerare bello solo ciò a cui si è abituati, che è confermato e sicuro, insomma, ci vorrà tempo… Gesù parlava al futuro, ma ai suoi tempi non era stato capito, anzi, era stato crocifisso. È  questo il Van Gogh di Schnabel?

 

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