IL POSTO «Da poco so che il romanzo è impossibile. Per riferire di una vita sottomessa alla necessità non ho il diritto di prendere il partito dell’arte, né di provare a far qualcosa di “appassionante” o “commovente”. Metterò assieme le parole, i gesti, i gusti di mio padre, i fatti di rilievo della sua vita, tutti i segni possibili di un’esistenza che ho condiviso anch’io.
Nessuna poesia del ricordo, nessuna gongolante derisione. La scrittura piatta mi viene naturale, la stessa che utilizzavo un tempo scrivendo ai miei per dare le notizie essenziali».
La scomparsa del padre, la vita del padre. Contadino, poi operaio, infine gestore di un bar-drogheria nella provincia normanna. Morto mentre Annie Ernaux (1940, tra le maggiori scrittrici francesi) faceva il concorso per insegnare nei licei.
Dopo il funerale, «sul treno del ritorno, la domenica, cercavo di intrattenere mio figlio per farlo stare tranquillo, chi viaggia in prima classe non ama i rumori o i bambini che si agitano. D’un tratto, con stupore, “ora sono davvero una borghese” e “è troppo tardi”.
Più avanti, nel corso dell’estate, aspettando il mio primo posto d’insegnante, “bisognerà che spieghi tutto questo”. Volevo dire, scrivere riguardo a mio padre, alla sua vita, e a questa distanza che si è creata durante l’adolescenza tra lui e me. Una distanza di classe, ma particolare, che non ha nome. Come dell’amore separato».
Una scrittura acuminata e all’apparenza gelida, in realtà antifrastica, che nega per affermare. Una voce tenuta sottotono quasi per paura dell’incrinatura. Un gelo che diventa rabbia trattenuta, rifiuto di dire la miseria e la mancanza d’orizzonti se non esorcizzandola con uno sguardo implacabile.
«È restato ragazzo di fattoria fino al militare. Le ore di lavoro non venivano conteggiate. I padroni lesinavano sul vitto. Un giorno, il trancio di carne servito sul piatto di un vecchio mandriano si è messo a ondeggiare lentamente, sotto era pieno di vermi. Era stato oltrepassato il limite del sopportabile. Il vecchio si è alzato, reclamando, che non fossero più trattati come cani. La carne è stata cambiata. Non è La corazzata Potemkin».
La campagna francese agli inizi del ‘900. «Quando leggo Proust o Mauriac, non credo che rievochino il tempo in cui mio padre era bambino. L’ambiente della sua infanzia è il Medioevo».
La durezza della vita, il rifiuto dell’idillio, le atroci pagine mielose e bugiarde dei sillabari sulla buona povertà. «Dalle vacche del mattino a quelle della sera, le piogge d’ottobre, i pesanti sacchi di mele da ribaltare nel torchio, il pollaio pieno di escrementi da spalare, avere caldo e sete. Ma anche la galette des rois, l’almanacco Vermot, le castagne arrosto, Martedì grasso non te ne andare ci metteremo a cucinare, il sidro imbottigliato e le rane fatte esplodere soffiando loro in bocca con una cannuccia. Sarebbe facile scrivere cose del genere. L’eterno ritorno delle stagioni, le gioie semplici, il silenzio dei campi. Mio padre lavorava la terra altrui, non ha visto la bellezza, lo splendore della Madre Terra e altri miti gli sono sfuggiti».
Il minimo risarcimento della vita, appena sopra la mera sopravvivenza: un cambio di vestiti, una gita di domenica, un attimo per tirare il fiato. E la figlia che si allontana come succede quando “si sale” e si cambia di ceto, quando non hai più le stesse esperienze e lo stesso mondo, e non sai spiegare un nuovo ballo, un vestito, un libro, un mobile, una spiaggia, quando ti sembra che a casa tua non capiscano cosa fai per vivere. Chi è stato il primo, in una famiglia povera, a prendere l’ascensore della mobilità sociale, sa bene che il rovescio della medaglia dell’avercela fatta è la solitudine. L’essere al tempo stesso esploratori e apolidi. L’impossibilità di restare, il rimorso per non essere restati.
Una vita all’insegna della necessità si può descrivere con la secchezza che nasconde lo struggimento con cui Peter Handke racconta la madre suicida e il suo ambiente: «Nessuna possibilità, tutto già previsto: piccole galanterie, risolini, un’ebbrezza breve, poi repentinamente la faccia severa, riservata, che diventava subito un’abitudine, i primi figli, stare ancora un po’ lì dopo le faccende di cucina, non essere ascoltata mai sin dall’inizio, fingere lei stessa di non udire, parlare da sola, reggersi poi a fatica, le vene varicose, niente più che un mormorio nel sonno, cancro all’utero, e con la morte la predizione alla fine si avvera. Le varie fasi di un gioco che facevano le bambine di quei posti, si chiamavano: Stanca-Debole-Malata-Moribonda-Morta». (Il libro è il bellissimo Infelicità senza desideri, assai diverso da questo eppure segretamente affine).
E un distacco si può raccontare con la scena definitiva in cui Joseph Roth fa incontrare il giovane capitano Joseph Trotta, fatto nobile da Francesco Giuseppe per avergli salvato la vita a Solferino, e il vecchio padre brigadiere a riposo. «”Ha ancora rakija, signor padre?” chiese per confermare l’ultimo residuo di quella familiare comunione. Bevvero, brindarono, bevvero di nuovo, dopo ogni sorso il padre gemeva, si perdeva in una tosse senza fine, diventava paonazzo, sputava, poco alla volta si quietava e cominciava a raccontare storielle di quando era nell’esercito, col chiaro intento di sminuire meriti e carriera del figlio. Finché il capitano si alzò, baciò la mano paterna, ricevette il paterno bacio sulla fronte e sulla guancia, cinse la sciabola, si mise l’elmo e partì – pienamente consapevole di aver visto il padre per l’ultima volta in questa vita…
Fu l’ultima volta. Il figlio scriveva al padre le consuete lettere, non ci fu più altro palese rapporto fra i due – il capitano Trotta si era staccato dal lungo corteo dei suoi antenati slavi e contadini». (La marcia di Radetzky).
O se ne può scrivere come in questo piccolo capolavoro, dissimulando la tenerezza con la maschera dell’impassibilità, della distanza. Consapevoli (e la frase di Jean Genet posta ad esergo è una dichiarazione d’intenti) che «scrivere è l’ultima risorsa quando abbiamo tradito».
Traduzione, molto bella, di Lorenzo Flabbi.