Io sono un angelo nero

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io sono un angeloDice la manchette: “Dall’autore di Sotto il vestito niente la verità sulla fine di Emanuela Orlandi”. Pubblicità ingannevole, perché il romanzo di Paolo Pietroni è di più e di meno.

Di meno, perché non è un thriller classico o una “controinchiesta”, quando piuttosto la messa in scena di un’inchiesta giornalistica su Emanuela Orlandi. E di una discreta e tenace indagine (del direttore Paolo Montecchi alter ego di Pietroni, del carabiniere Francesco Paladino) sulla scia dei delitti che l’inchiesta giornalistica suscita.

Di più perché il romanzo è un fuoco d’artificio di finzioni (Jorge Luis, se ci sei batti un colpo) e di sentieri che si biforcano. Nel senso usuale di fiction? Anche. E nel senso di rappresentazione teatrale, psicodramma, scialo, esplorazione di mondi e tic, accumulo di materiali, cortocircuiti e scarti, erotismo esotismo esoterismo. Dice il carabiniere Paladino, alle battute finali del libro: “Il gioco è sempre una finzione ma la finzione non è sempre un gioco”. Lo tenga a mente chi legge.

Ne emerge un retrobottega di gerarchia cattolica a tinte fosche ma non implausibili: i Legionari di Cristo (la storia del fondatore, il messicano Marcial Maciel Degollado, rimosso dalla guida dell’ordine in seguito ad accuse di pedofilia e tossicodipendenza, è vera e turpe, come turpe è il sostegno che i legionari hanno goduto dai tempi di Pio XII al pontificato di Wotyla e la blanda epurazione che è seguita dopo lo scandalo), preti killer o giustizieri, frati ricattatori o complici, poca luce e molte ombre. Affiorano i nomi che già sono stati fatti in cronaca: la responsabilità di Marcinkus nella scomparsa della Orlandi, la leggenda nera della sepoltura della ragazza assieme a Renatino De Pedis della Banda della Magliana.

Il rovescio della medaglia è il mondo editoriale che si agita attorno al caso: la giornalista Marie Gilles alias Andrea Steiner che, alle battute finali di un’inchiesta sulla Orlandi, decide di scomparire dopo avere sedotto tutti con haiku, scoperte di aure (l’umanità si dividerebbe in bianchi, neri e gialli, con corrispettivi nelle cerchie angeliche), un’identita misteriosa (maschio o femmina? as you like it), una sensibilità umbratile e mille curiosità iniziatiche. E le molte comparse di un mestiere che ha più del teatro che della cronaca (non è un accusa, piuttosto una constatazione).

Si tuffi in questo mare magnum chi ha voglia di finzioni e di uno scialo di saperi, di un accumulo di citazioni fulminanti e di storie insospettabili. Haiku e ufo, Husserl e Spinoza, Leonardo e la passione di Benedetti Michelangeli per il Giappone, la sessualità dei bonobo e i miti su Ayers Rock, la teoria degli anagrammi e la lista dei giornalisti bianchi neri e gialli (da consultare) e molto altro ancora. Tiene tutto assieme la convinzione, che è della giornalista Marie e dell’autore, che “ognuno di noi è collegato agli altri attraverso trame fitte e misteriose”. E un finale-ombrello che dà senso a tutto e ci riconcilia anche con quel che, leggendo, abbiamo considerato inverosimile.

Paolo Pietroni ha inventato e diretto giornali con progettualità da architetto e slanci da teatrante e da artista. Giornali che restano nella storia e nella memoria, da Amica a Max, da Sette allo Specchio, da Salve a Ok Salute. Ha inventato e diretto anche il bello e sfortunato Mystère nella cui redazione si svolge questa storia. Pietroni è un genio di difficile classificazione, sghembo originale e visionario (ma capace di straordinaria concretezza, si faccia attenzione alla sua prosa fattualista). Chi lo ha conosciuto e ci ha lavorato assieme, anche quando non ama tutti i suoi ingredienti, lo ritrova in queste pagine e ne resta affascinato.

PS. Nella dedica alla mia copia, Pietroni ha scritto: “A Roberto, che è giallo come me”. Giallo è il razionale, il sostenitore del libero arbitrio. Chi non si lascia intrappolare dagli eccessi del Bene e del Male. Anche forse il moderatamente arido, il moderatamente disilluso, il quasi cinico. Paolo riesce a mettermi a fuoco meglio di quanto non sappia fare io. Che in gioventù credevo di essere bianco e col tempo mi sono ingiallito.

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