Plain spoken
di John Mellencamp (Republic Records)
Voto: 7
La musica è dolcemente polverosa, come fosse suonata da una band di hobos incontratisi in mezzo al deserto a celebrare un’antica amicizia musicale. La voce è la stessa di sempre, un po’ più roca ma viva, graffiante, magistrale nel suo dipanare storie in rima sul telaio musicale imbastito da una band più che padrona della materia. Capitanati dal sempiterno T-Bone Burnett a produzione e chitarra elettrica, John Mellencamp e band insistono a cantare e dare voce quell’America rurale lasciata negli ultimi trent’anni un po’ troppo in disparte, con un album marcatamente roots-rock, molto acustico e folkeggiante ma ben calibrato, con arrangiamenti essenziali e precisi a evidenziare lo storytelling del leader sopra un tappeto musicale intriso di umori country, folk e blues, suonato con estrema perizia. La solita minestra o un album noioso, per chi non ama il genere o non conosce l’autore. In effetti, niente di strabiliante o innovativo. Un album riflessivo, intimista ma mai moscio o noioso, dove l’autore racconta di sé, delle proprie riflessioni sulle cose e le storie, belle e brutte, di tutti i giorni, dove a volte Dio c’è e altre, invece, no. E basterebbe questa canzone (Sometimes there’s God), per ciò che esprime, a giustificare l’acquisto dell’intero album. Ma sono più d’uno, i brani che brillano di luce propria e si fanno spazio nelle orecchie e nella testa dell’ascoltatore, ascolto dopo ascolto. Vale la pena di provare un giretto in Indiana, sì.