Acchiappo Antonio Manzini al terzo romanzo della serie Rocco Schiavone (i due precedenti sono lì, in attesa di lettura) e il suo poliziotto mi sembra il più credibile, il suo romanzo il più solido e centrato dell’ultimo periodo. Siamo ad Aosta dove Schiavone, romano e vicequestore, è stato trasferito per punizione: è uno che interpreta creativamente il mestiere, e ha cattivo carattere. Mettiamo le cose in chiaro: Schiavone non è l’ispettore Callaghan né Monnezza e questo non è un poliziottesco. Ma Il vicequestore non è neppure uno dei tanti poliziotti politically correct che starebbero bene nella direzione piddì (e forse non sarebbero neppure renziani) e senz’altro nella cupola di Slow Food. È uno appassionato, ma che non ha letto tutti i libri come l’insopportabile Vito Guerrieri di Carofiglio. Ha i suoi bravi tic, li scoprirete leggendo: non quelli del gourmet e del citazionista.
Dunque, siamo ad Aosta. Ci sono due balordi che si schiantano con un furgone nel pieno della notte, mentre vanno verso Saint Vincent. Il furgone è intestato a uno di loro ma la targa è quella di un’auto rubata. E c’è una ragazza, figlia di costruttori edili, che non è tornata a casa, ma la sua famiglia non ha denunciato la scomparsa. Insomma, per farla breve, c’è la ‘ndrangheta ai piedi del Monte Bianco e Schiavone dovrà fare i salti mortali (bello il mix fra deduzione e azione). Come va a finire non si dice.
Ancora due notazioni: in questo noir robusto e ben cesellato come un vecchio mobile di pregio (Schiavone sa di antiquariato) affiora la tragedia (il vicequestore parla con la moglie defunta, gli sembra che il marcio contro cui combatte gli resti appiccicato addosso) alleggerita da un gioco ironico delle parti e da notazioni di commedia che non prendono mai la mano (i poliziotti inetti, l’anatomopatologo macabro, la “brava gente” da prendere con le molle). Una cosa non trovo, per fortuna: l’epica gangster di discendenza leoniana (Sergio, il regista) che, da “Romanzo criminale” a “Gomorra” (la serie tv, non il film né il libro di Saviano) sta appestando il genere. Qui i criminali sono i criminali: senza moralismi né tirate, gentaglia per cui non si può simpatizzare. Bravo Manzini (è attore e sceneggiatore, leggo; dei film tratti da Ammaniti, aggiungo), leggerò gli altri due.