Giacometti, il bello del non finito

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Ultimo giorno di Giacometti alla GAM di via Palestro a Milano. Inutile domandarsi il perché delle sue figure filiformi, rappresentate nell’atto di avanzare verso qualcosa che non so, in un equilibrio sbilenco. È come intestardirsi per conoscere la ragione per la quale Modigliani rappresentasse i colli così lunghi. Chiedere a un artista il perché del suo stile, dei suoi soggetti, o il significato di un’opera, è peggio che domandare a un pescatore se i pesci abboccano: se non lo capisci da te stesso, se non lo senti, non c’è spiegazione che tenga. Nel caso di Giacometti per me conta la materia, il segno delle impronte delle dita, il bronzo che pare un materiale morbido, plasmabile, ancora abbozzato, il non finito che vale quanto un marmo levigato. Una vera sofferenza non poter toccare le opere, come il bronzo sempre vorrebbe. E ancor più mi colpisce l’espressione sgomenta e interdetta di quei visi disperati, che tanto assomigliano alla sua faccia da montanaro scavato dal ghiaccio. Giacometti non è sicuramente allegro: come le sue figure, cariche di solitudine e sofferenza, esseri devastati e consumati dal peso della vita, diretti verso un futuro incerto, incredibilmente misterioso e carico di tristezza.

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Diplomato al Liceo Artistico di Milano nel 1980, avrei sempre voluto fare l’artista. Ma, visto che si deve anche mangiare, mi sono inventato grafico editoriale e pioniere dei primi sistemi di impaginazione Apple, scoprendo un nuovo amore. Mi è andata bene, ho collaborato con le maggiori case editrici italiane e ora sono un art director sul libero mercato. Però il primo amore non si scorda mai, così sogno ancora di diventare un artista...

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