Negli ultimi film di Eastwood (lenti, classici, meditati, fin troppo saggi) abbiamo sempre la sensazione che, come Hemingway raccomandava, ogni volta lasci fuori qualcosa (nel significato, non nel metraggio che è abbondante) per tenere desto il lettore/spettatore. American Sniper si apre con grande furbizia sul più medagliato cecchino d’America -Chris Kyle- che deve decidere se tirare o no con un calibro 50 su un bambino iracheno a cui la mamma passa una bomba. Trattiene il respiro (noi con lui) e pam! fulmina in flashback un cervo, per dirci che tutto è cominciato lì: la passione della caccia, e il ruolo che il padre un po’ predicatore gli spiega: gli uomini sono pecore, lupi e cani da pastore e Chris sarà un cane da pastore, vita dura, tutta dedicata al dovere. La carriera del giovanotto, capace di domare cavalli da rodeo, di tenere un fucile calibro 50 con una mano sola e di sparare con due occhi aperti, sembra un inquietante documentario di normalità, al punto che quando si torna sul famoso bambino con la bomba anche lo spettatore più pudibondo “spara” con il protagonista. Ma arrivati alla fine di un film a modo suo regolare e quasi tranquillo ci si rende conto di avere avuto tra le mani uno strano oggetto: una scatola grande e grossa, ufficialmente sulla autobiografia (scritta in vita) dell’uomo che ha colpito più nemici di chiunque (160 sicuri o 250 secondo la leggenda), che contiene una scatola più piccola sulla vita di uno psicopatico (nel film) gentile, un uomo psichicamente malato che si teneva insieme con i cerotti ormai laceri del patriottismo. E questo senza sapere -come ha rimproverato il Guardian a Eastwood- che nelle memorie scritte in vita Kyle diceva di divertirsi a uccidere i cattivi.

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