Il progressive jazz di Vijay Iyer

Il jazzista di origini indiane si conferma uno dei quarantenni che stanno prendendo nelle proprie mani le “magnifiche sorti e progressive” del jazz attuale

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Break stuff
di Vijay Iyer
(ECM / distribuzione Ducale)


Vijay Iyer fa 17. E segna una sorta di punto e a capo nella sua carriera, uno di quei momenti topici, che sono insieme pietra miliare e punto di ripartenza. Iyer_-_Break_Stuff_Cover_400_400_s_c1Con l’album Break stuff, che lo vede accompagnato dall’abituale coppia ritmica composta dagli ottimi Stephan Crump al contrabbasso e Marcus Gilmore alla batteria, il pianista indiano, naturalizzato statunitense, si conferma uno dei quarantenni che stanno prendendo nelle proprie mani le “magnifiche sorti e progressive” del jazz attuale.
Materiale (“stuff”) adatto, come dice l’artista, a quel break, quel “momento in cui tutto prende vita”, quell’“arco di tempo in cui agire”, quell’attimo che è “di rottura” così come “di pausa”.
Riflessioni su materiale noto – una composizione per il MOMA di New York oppure i tre brani da Open City, la suite per grande ensemble realizzata in collaborazione con il romanziere nigeriano Teju Cole – omaggi a Robert Hood, il pioniere della techno, e a Thelonious Monk (“il mio eroe number one di ogni tempo”), rivisitazioni di John Coltrane (Countdown dagli influssi afro) e Duke Ellington (Blood Count, l’ultimo brano composto da Billy Strayhorn prima di morire, proposta in solitaria riflessione), la Mystery Woman di matrice ritmica sud-indiana.
“La logica del riuso”, spiega Iyer, “è sempre stata una parte di ciò che il trio fa: prendiamo qualcosa che non era destinato a noi e ce lo facciamo calare addosso. Questo ci porta in ambienti per noi sempre nuovi. E il feeling della scoperta ci dà moltissima energia.”
Difficile che i tre calpestino i territori tipici del piano trio, preferiscono rincorrere traiettorie più complesse, irregolari, argute, esplorando dinamiche incrociate e giochi combinatori. Una sorta di continua esplorazione delle potenzialità di ciò che suonano li conduce incessantemente verso prospettive alternative – non distanti da quelle degli Starlings e Geese che volano su New York – punteggiate da influenze sottotraccia che passano da Monk all’hip-hop, da Amad Jamal al funky, da Miles Davis fino a Jimi Hendrix.
Il tutto retto da un tocco pianistico di livello assoluto e da un’abilità quasi vocale nel costruire gli accordi. Non per nulla Iyer è stato nominato per il Grammy, cinque volte vincitore del Down Beat International Critics Poll 2012, quattro volte premiato nel referendum di JazzTimes, designato Pianista dell’anno nel 2012 e 2013 dalla Jazz Journalists Association, vincitore dell’Echo Award (il Grammy tedesco) come miglior pianista internazionale.
Lo attendiamo in trio al Festival Jazz di Bergamo il prossimo 21 marzo e a Messina il giorno successivo.

Che dire? Basta citare la cura di oltre 250 cd compilation di new age, jazz, world e quant’altro? Bastano una ventina d’anni di direzione artistica dell’Etnofestival di San Marino? Bastano i dieci come direttore responsabile di Jazz Magazine, Acid Jazz, New Age Music & New Sounds, Etnica & World Music? Oppure, e magari meglio, è sufficiente informare che sono simpatico, tollerante, intelligente... Con quella punta di modestia, che non guasta mai.

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