Van Gogh. L’uomo e la terra

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Paesaggio con covoni e luna che sorge 1889, olio su tela Kröller-Müller Museum, Otterlo
van gogh autoritratto
Autoritratto 1887, olio su cartone Kröller-Müller Museum, Otterlo

Rincorse la vita, canta Vecchioni in  Vincent «come una donna amata alla follia… a colpi rossi… gialli come dire “aspetta!”, fino a che i colori non bastaron più…». Mancato pastore (cacciato dal seminario per fanatica dedizione ad assistere i poveri, benché lo fosse altrettanto) Van Gogh espresse una pervicace volontà di afferrare la realtà, non contemplandola per conoscerla ma affrontandola dal di dentro come un limite che fa soffrire. E il desiderio continuo di forzare questo limite diventa “passione della vita”, talmente ossessiva che inevitabilmente porta alla morte. È questa la chiave che gli permette di superare l’edonismo impressionista verso un pre-espressionismo di matrice quasi romantica, usando il colore come esaltazione per rappresentare stati d’animo sempre in tensione e la natura come loro riflesso sensibile. La chiave che ci consente di ammirare al meglio la bella mostra Van Gogh. L’uomo e la terra a Palazzo Reale di Milano fino all’8 marzo. Vi sono raccolte, in un riuscito allestimento molto “discorsivo”, opere, lettere e disegni in un percorso che sembra via via accendersi: dai contadini piegati dalla fatica color ocra scuro e i minatori spenti e cupi, alla luminosa esplosione di azzurri, gialli, arancio delle tele provenzali; dalle poco note nature morte raggrumate e buie alle belle facce del postino Roulin e dell’enigmatico Ginoux. Un’arte sempre in bilico, giocata sul filo di un’accentuata solitudine e di una ricerca che fu per lui continuo rischio emotivo. Fino a quel fatidico 27 luglio 1890: una splendida domenica di sole nella campagna di Auvers, poco fuori Parigi. Vincent vive lì da tre mesi, dopo la lunga degenza ospedaliera seguita alla grave crisi di Arles, dove si è reciso parte dell’orecchio sinistro per consegnarlo alla sua prostituta preferita, la bella Rachel. Sembra tranquillo e iperattivo, vigilato dal dottor Ferdinand Gachet: “è più malato di nervi lui di quanto non lo sia io”, scrive il pittore. Eppure, rientrato tardi nel caffè di Place de la Mairie che lo ospita, dice ai proprietari di essersi sparato una rivoltellata. Dalla capitale accorre il fratello Theo, che lo ama sopra ogni cosa. Van Gogh trascorre la giornata seguente a letto fumando la pipa, e muore il mattino del 29, a 37 anni, età drammatica per molti geni della pittura: Raffaello, Watteau, Toulouse-Lautrec, Parmigianino. Se ne va in mezzo a quella natura rutilante e oscura, immutabile e infinitamente varia, perpetuo convitato di pietra della sua vita, perfetto sconosciuto: il giornale locale lo definisce un nommé Van Gogh, sujet hollandais.

Che dire? Basta citare la cura di oltre 250 cd compilation di new age, jazz, world e quant’altro? Bastano una ventina d’anni di direzione artistica dell’Etnofestival di San Marino? Bastano i dieci come direttore responsabile di Jazz Magazine, Acid Jazz, New Age Music & New Sounds, Etnica & World Music? Oppure, e magari meglio, è sufficiente informare che sono simpatico, tollerante, intelligente... Con quella punta di modestia, che non guasta mai.

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