Timbuktù. La resistenza è un’arte

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All’inizio c’è una famiglia che vive sulle dune e non si rende conto del cambiamento politico fino a che non gli viene uccisa una mucca (GPS, quella che trova sempre la strada…) che ha danneggiato la rete di un pescatore. A quel punto la famiglia scopre che a Timbuktù (la cui tradizione era un Islam moderato e colto) ha preso il potere una milizia islamica che impone divieto su divieto. Alle origini c’era la storia del 2012 di una coppia non sposata lapidata dagli jihadisti in un villaggio del Mali. Abderrahmane Sissako poteva farne un documentario di denuncia, poi -dice-pensò che l’orrore si respinge con l’arte. Quindi Timbuktù ora narra di un luogo in cui i fondamentalisti utilizzano in modo distorto le leggi coraniche  per privare le persone delle libertà di cui godevano (fumare, fare e ascoltare musica, vendere pesce a mani nude, uscire a capo scoperto, fare sport) e in cui le persone reagiscono con forme di resistenza poetica. Ragazzi a cui è vietato il gioco del calcio per esempio giocano a calcio senza palla: una scena che ricorda il tennis di Blow Up di Antonioni di supporto a un film il cui sapore surreale, insieme documentaristico e fantastico,  accoglie la terribile denuncia dell’Imam locale: “Fermatevi! State facendo del male all’Islam!”. E la risposta dei duri e puri è “Facciamo Jihad”. Timbuktù non è il film di chi si aspetta una condanna dell’Islam: è un film sul male che gli estremisti islamici possono fare agli islamici stessi.

Ultime notizie: il regista è stato chiamato a presiedere la Cinefondation e la giuria dei corti a Cannes, e la produttrice Sylvie Pialat ha vinto il Toscan Du Plantier Award per la seconda volta. Insieme stanno andando all’Oscar…

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