Un piccione seduto sul ramo riflette sull’esistenza
di Roy Andersson.
Voto 8
Nella prima scena tra le teche di un vecchio museo di scienze naturali fatichi a capire la differenza tra il piccione impagliato e l’uomo dalla carnagione mortuaria che lo guarda: ambedue immobili, in un gelo da installazione d’arte. Seguono tre scenette sulla morte per abituare al mood, e poi entri in un universo stilizzato al massimo grado, dove seguiamo il peregrinare di due tristissimi venditori di scherzi che “aiutano la gente a divertirsi” (dentiere da vampiro, pacchi che ridono) in ambienti urbani di raro squallore aiutati dai riflessi di vetrine che rilanciano lo squallore e dove succedono cose ineffabili. All’apice di questa surrealtà in un bar contemporaneo passa l’esercito di Carlo XII di Svezia che va a castigare “il russo“, il re scende da cavallo dopo che dal locale sono state espulse le donne e fustigati i giocatori alle macchinette, e fa domandare dall’aiutante di campo un’acqua minerale e il barista (per le sue notti in tenda), ma vi saranno offerti anche varianti musical irriguardosi di Glory Glory Hallelujah! e macchine da tortura kafkiane in sogni coloniali. Ognuno potrà sbizzarrirsi nei riferimenti alti o bassi: io vedevo Buñuel, Beckett e Kaurismaki in un angolo a brindare in silenzio all’umanità. A Venezia 2014 la giuria presieduta dal musicista Alexandre Desplat ha assegnato al regista Roy Andersson il Leone d’oro e lui ha citato Ladri di biciclette di De Sica. Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza è il capitolo finale della trilogia partita con Canzoni del secondo piano (premio della giuria a Cannes 2000) e You, The living del 2007.
A proposito: i piccioni non si siedono sui rami.
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