Kenny Wheeler, le Songs postume del grande trombettista

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Songs for quintet
di Kenny Wheeler
Voto 6/7


Esteta raffinato, Kenny Wheeler profonde nella tromba (anche se predilige il più morbido e intimo flicorno) una sonorità ricca di riverberi e di notevole tessitura all’interno di un rigore ritmico che è trampolino di ampie libertà espressive. Personaggio unico, schivo e reticente nei modi, intenso e sensibile nell’esprimersi, era solito dire: “Quello che mi piace di più fare è scrivere canzoni tristi, e poi lasciare che meravigliosi musicisti le destrutturino, le distruggano. Non voglio mai che i musicisti cerchino di interpretare ciò che pensano io senta.”

Ci ha lasciato nel settembre scorso, pochi giorni dopo aver approvato il missaggio finale del suo ultimo album Songs for Quintet, apparso negli store a metà gennaio, il giorno in cui il maestro avrebbe compiuto 85 anni. Ascoltarlo ne conferma il luminoso talento, che ha attraversato l’universo del jazz con passo felpato e sensibilità malinconica, con un sound dall’ipnotica umanità, con un’indomita autonomia di pensiero nello scorrere dei virtuosismi. Il suo flicorno distilla ogni volta suoni che si agglutinano alle pareti del cuore grazie all’innata melodicità e alla suadente ricerca armonica.

Inevitabilmente questo “canto del cigno” risente del trascorrere degli anni, la limpidezza del soffio è un poco appannata, l’antica tenerezza preferisce sciogliersi in distinta eleganza, la ricerca della cantabilità è ostinata anche nei momenti meno lirici, le note alte – quasi spremute dall’ottone – per cui è famoso mancano, però Songs For Quintet conserva gran parte della malinconia dei tempi migliori, uno spleen che si è fatto romantico e che si scioglie in una manciata di bei pezzi e di curate improvvisazioni. Senza aggiungere dell’immediata riconoscibilità di una “voce” che è nella storia del jazz della seconda metà del XX secolo.

Con Wheeler sono il sassofonista Stan Sulzmann (perfetto nella soffice e flessuosa “Jigsaw”, nonché ideale alter ego), il chitarrista John Parricelli e la coppia ritmica Chris Laurence-Martin France, in bilico tra disinvolti sviluppi melodici e luminosità impressionistiche, tra il blues-bop di “Old Time” e il tango alla Carla Bley di “Sly Eyes”, tra suoni acustici ed elettrici, verso un melodismo ovattato che sa flirtare con occasionali dissonanze modali e graffi asimmetrici.

Struggente quanto significativa la traccia conclusiva “Nonetheless”, in cui il quartetto, senza leader, sviluppa una melodia morbida e delicata, totalmente wheeleriana, quasi a testimoniare che nuovi musicisti sono pronti a portarne avanti la lezione e la poetica. Ovvero che Kenny Wheeler è ancora in questo cd, e rimarrà per sempre, il musicista e compositore inconfondibile e molto influente che è sempre stato. Da quando si è trasferito a Londra nel 1952 per studiare con Richard Rodney Bennett, passando per sperimentazioni free, collaborazioni eccellenti (Jarrett, Konitz, Frisell, Winstone, McLaughlin, Holland e via dicendo), composizioni per grande orchestra e numerosi capolavori (citiamo nel mazzo Gnu High, Kayak, Music For Large & Small Ensembles, Angel Song, What Now?), fino agli ultimi giorni, durante i quali componeva ancora per sette-otto ore.

Che dire? Basta citare la cura di oltre 250 cd compilation di new age, jazz, world e quant’altro? Bastano una ventina d’anni di direzione artistica dell’Etnofestival di San Marino? Bastano i dieci come direttore responsabile di Jazz Magazine, Acid Jazz, New Age Music & New Sounds, Etnica & World Music? Oppure, e magari meglio, è sufficiente informare che sono simpatico, tollerante, intelligente... Con quella punta di modestia, che non guasta mai.

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