Automata. Dopo di noi i robot.

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Automata 
di  Gabe Ibáñez
con Antonio Banderas, Dylan McDermott, Melanie Griffith, Birgitte Hjort Sørensen, Robert Forster.
Voto 6 1/2

Nel 2044 a causa delle tempeste solari saremo veramente in pochi sulla terra e vivremo in una pattumiera diffusa, con tecnologia un po’ regredita e un po’ avanzata. La pubblicità sarà invasiva e olografica, il tempo uno schifo pericoloso per la salute (colpa nostra), l’ecologia un ricordo. I robot, gli Automata Pilgrim 7000 della ROC, saranno la normalità: manichini senza volto mobile, con la voce elettronica dei vecchi Macintosh, lavoreranno per noi, chiederanno l’elemosina per noi e ci puliranno da vecchi, se vivremo abbastanza. L’agente assicurativo Vaucan (Banderas), imminente padre, deve indagare su un robot che si stava aggiustando da solo. Sarebbe inaudito: i robot non devono danneggiare nessuna forma di vita e non devono alterare se stessi o altri automi. Il loro software è obbligato da questi due protocolli vagamente asimoviani. Ma se un robot si aggiusta da solo allora va verso la coscienza? E poi? Mentre l’assicuratore cerca un “orologiaio” che combina e ricicla pezzi di robot, incappa nella dottoressa Melanie Griffith (un po’ robotizzata dalle plastiche facciali) che spiega: “Limitiamo i robot con il secondo protocollo perché non sappiamo cosa c’è aldilà del secondo protocollo”.  Ci sarebbe tutta l’evoluzione umana, ma in un paio di settimane… Il mondo di Automata è un po’ parente di tutto quello che di deprimente da vivere si è immaginato dopo Blade Runner, e un po’ discosto dalla magniloquenza del catastrofismo americano: evidente debitore a Io, Robot e con un occhio alle nuove povertà come la fantascienza da favela di District 9. Curiosità: gli automi dicono cose su esistenza e sopravvivenza che sembrano uscite da Verdi colline d’Africa di Hemingway (“Vivere, non puramente trascorrere i giorni”) e possono ballare sulle note di La mer.

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