Sheik Yer Zappa
di Stefano Bollani
Voto 7
Il vecchio Frank aveva un rapporto di odio/amore con il jazz. In un suo brano cantava: “get off that jazz syndrome… there’s no lust in jazz!” “Non c’è lussuria nel jazz!”, affermazione provocatoria che però dovrebbe essere il punto di riferimento per riprendere in formulazione jazz le musiche di Francis Vincent Zappa, chitarrista e compositore scomparso non ancora 53enne nel 1993, autore iperfecondo. Un autentico monumento della musica del secondo Novecento, e non solo per chi, come il sottoscritto, ha interrotto il viaggio di nozze per correre a un suo concerto (1 aprile 1979, Zurigo, tour di Sheik Yerbouti: fan-ta-sti-co!).
Un tentativo da far tremare i polsi. Lo hanno mostrato nel tempo le molte ammaccature rimediate nell’impresa non solo da jazzisti di varia vaglia, ma persino dalla London Symphony Orchestra e dallo stesso figlio, lui pure chitarrista, Dweezil: da evitare il suo Zappa Plays Zappa.
Last but certamente not least ci prova Stefano Bollani, da diversi anni, grazie anche alla simpatia e all’esposizione mediatica (tra cui spicca il suo alter ego disneyano Paperefano Bolletta), il più noto jazzista italiano. Grazie soprattutto a dischi importanti, a tour con ensemble di rilievo, a collaborazioni internazionali, che gli sono valsi numerosi riconoscimenti in mezzo mondo. Ultimo, nel settembre scorso, il JTI Jazz Award (sta, incredibile dictu, per Japan Tobacco International e 10mila euro di premio) di Treviri, la città natale di Sant’Ambrogio e di Karl Marx, la più antica della Germania, con splendidi monumenti romani, sulle rive della Mosella.
Dopo l’assai ammirato Joy In Spite Of Everything, Bollani propone il suo trentesimo album Sheik Yer Zappa, titolo che parafrasa l’ottimo doppio LP zappiano del 1979, a sua volta rivisitazione dell’hit dance “Shake Your Booty”. L’accostamento è rispettoso, attento, quasi analitico a volte, con la voglia di divertirsi anche, ma con una riproposta che volutamente ogni volta scappa per coordinate e territori progettuali differenti, per scorciatoie immediatamente jazzistiche, per improvvisazioni brillanti ma troppo spesso alla ricerca del feeling perduto con il sentire “lussurioso” di Fz.
Il disco è stato registrato dal vivo durante il tour 2011 e pubblicato solo da poche settimane, segno che qualche dubbio circolava nonostante il successo di allora e l’ottima formazione, con il vivido vibrafonista Jason Adasiewicz, la polposa coppia ritmica Larry Granadier-Jim Black, il marmoreo trombonista Josh Roseman e lo stesso Bollani, non di rado anche allo strumento elettrico.
Dei nove brani, tre sono del pianista milanese, la meditativa “A Cosmik Intro” di apertura e le due improvvisazioni centrali né “Bene bene” né “Male male” a dispetto dei titoli. Gli altri appartengono al primo periodo zappiano, ma sono triturati, ripresi, distorti, ricomposti, sia nei momenti più festosi (“Blessed Relief”, “Uncle Meat”) sia in quelli più squisitamente ritmici (“Cosmik Debris”, “Eat That Question”). Molto riuscito “Peaches In Regalia”, rielaborato anche armonicamente, del resto uno dei brani più jazzy del compositore di Baltimora, ed esilarante il divertissement canzonettistico “Bobby Brown”, in cui Bollani si cimenta pure al canto.
Peccato una sola cosa, quello di Stefano è un bel jazz, intelligente, colto, spiritoso. Ma lascia intuire che Bollani non è Matt Groening, il creatore dei Simpsons, il quale ebbe a dichiarare che Zappa è stato il suo Elvis, ovvero, detto da un americano, “il suo riferimento musicale e culturale assoluto”. Per il pianista, anche se ne possiede ironia e causticità, lo “zio Frank” è semplicemente uno dei musicisti da ammirare, magari cui fare riferimento “per la sua abilità nel mettere sullo stesso tavolo musicale l’ombrello e la macchina da cucire per creare commistioni interessanti”. Non è l’amore della vita.